Etimologie rugbistiche

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Ilgorgo
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Etimologie rugbistiche

Messaggio da Ilgorgo » 19 mar 2020, 6:56

E' un argomento un po' egocentrico perché almeno questi primi tentativi di spiegazione etimologica sono tratti dal nostro sito, però in questo momento di rugby imprigionato dall'epidemia non si hanno molti altri argomenti rugbistici dei quali parlare
Prima parola: PLACCARE

placcare
/plac·cà·re/
verbo transitivo
1. Rivestire con uno strato di materiale per lo più prezioso. Esempio: placcare un braccialetto d'oro (o in oro).
2. Nel rugby, fermare un avversario con un placcaggio.
…dice il dizionario.
Ma perché il gesto di fermare un rugbista avversario cingendolo con le braccia e portandolo a terra si chiama “placcare”?
Il termine italiano è probabilmente una diretta trasposizione del francese plaquer, quindi occorrerà valicare le Alpi per cercare le origini etimologiche di questo termine.
In francese plaquer (https://fr.wiktionary.org/wiki/plaquer) ha il significato fondamentale di “applicare una cosa su un’altra”, definizione che sembra adattarsi abbastanza all’azione del placcaggio nel rugby, nel quale qualcuno (il placcatore) si cinge a un altro (il portatore di palla).
All’origine del termine francese dovrebbe stare il verbo olandese placken, che significa “incollare, attaccare”, ma l’origine ancor più lontana dovrebbe risiedere nel greco plax, che significava “tavola, lastra” o comunque “cosa piana”.
Tornando al francese, plaquer ha anche il significato più specifico di “rivestire con una placca una superficie”, come in italiano, e anche questa accezione può sembrare calzante al gesto rugbistico poiché il placcatore in un certo modo “riveste” il giocatore placcato.
Plaquer ha però anche un altro significato quasi opposto, utilizzato nel linguaggio colloquiale: “abandonner, quitter, laisser tomber”, cioè abbandonare, lasciare, lasciar cadere. Ci sono esempi di questo uso già almeno a inizio ‘900, quando forse la terminologia rugbistica era ancora in formazione.
Si tratta insomma di due sfumature di significato quasi antitetiche, per il medesimo verbo: da una parte “incollare, unire” e dall’altra “abbandonare, lasciar cadere”. Entrambe si adattano parzialmente al gesto del rugby e questo ci impedisce di capire in modo certo perché venne adottato proprio questo verbo così particolare per definire il tackle rugbistico.
Fu scelto perché il placcatore riveste come una placca il placcato (significato ufficiale di plaquer) o perché il placcatore butta a terra il placcato (significato colloquiale di plaquer)?
Tre altre note del dizionario francese arrivano forse in nostro soccorso: la prima afferma che anche nella lotta libera si utilizza il termine plaquer con il significato di “fare cadere l’avversario e mantenerlo al suolo”. Questo sembra armonizzare i due precedenti significati di plaquer: cioè “far cadere” ma anche “ricoprire” con il proprio corpo quello avversario.
La seconda nota ci informa che plaquer può avere anche il significato di aplatir (appiattire) e che proprio nel gergo rugbistico aplatir è sinonimo di “segnare una meta”, perché quando segna una meta in tuffo il giocatore si appiattisce sull’erba.
La terza nota spiega che in forma riflessiva plaquer significa “appiattirsi a qualcosa o serrarrsi strettamente”: se plaquer au sol, se plaquer contre quelqu’un.
Siamo qui forse vicini al nocciuolo del significato di placcare, anche se l’esatta etimologia continua a sfuggirci: ricoprire qualcuno, ma anche lasciarlo cadere, ma anche appiattirsi e serrarsi. Tutto questo fa parte della galassia semiologica di “plaquer”, dal quale noi italiani prendemmo il nostro “placcare”. Se il significato rugbistico sia un insieme di tutte quelle varianti di significato o derivi da una sola di esse non siamo riusciti a intuirlo.

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illustrazione di Ottorino Mancioli, forse del 1933 o 1935

Ilgorgo
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Re: Etimologie rugbistiche

Messaggio da Ilgorgo » 19 mar 2020, 7:35

La seconda parola è META

Ai tempi degli antichi romani, quando i redattori di rugby.it erano ancora bambini, il termine latino “meta” indicava un cumulo di forma conica, fosse esso formato di terra come un montarozzo o di fieno come un covone. Ad esempio l'odierna cittadina brianzola di Meda si chiamava Meta (il dialetto ne mutò poi il nome) per via della collinetta conica sulla quale sorgeva.
In analogia con collinette e covoni, il termine “meta” fu utilizzato per designare elementi architettonici che possedevano la stessa forma: alti coni di pietra, simili ad obelischi puntuti ma dal corpo arrotondato. Le più note di queste mete, di questi particolari obelischi, comparivano negli stadi dei giochi, in una posizione particolare. Gli stadi dell'antica Roma, dei quali il Circo Massimo è il più celebre esempio, avevano grosso modo la struttura delle odierne piste di atletica ma con una forma più allungata e stretta; all'esterno stavano gli spalti, all'interno l'anello in terra battuta sul quale si svolgevano le gare e all'interno di questo anello compariva la "spina", una lunga struttura dorsale che rendeva l'anello di terra battuta appunto un anello e non una spinata unica come nel caso del Colosseo. Nel Circo Massimo la spina era ornata da molte statue e alle sue estremità svettavano sei mete, tre per parte. Questi tozzi obelischi conici iniziarono presto ad avere funzione non solo estetica ma anche pratica: gli aurighi le prendevano come punto di riferimento, laggiù in fondo al lungo rettilineo, per capire quanto mancava alla fine della volata o, nel caso di più giri, quanto mancava prima di una nuova difficile curva a gomito.
"Giungere alla meta” finì per acquisire il significato di "giungere al traguardo" (il traguardo è proprio quel luogo che si desidera raggiungere e che si guarda da lontano) e poi il significato più ampio di “ottenere il risultato desiderato”; "meta" divenne così sinonimo di “obiettivo”, “fine”, “scopo”, perdendo nell'accezione comune le proprie connotazioni architettonica e sportiva.
Facciamo un salto molto più avanti nel tempo. Attorno agli anni '30 del Novecento il rugby italiano scelse proprio il termine "meta" per definire la marcatura che gli inglesi chiamavano "try" e i francesi "essai". Forse senza conoscerne il significato originario, anche se allora lo studio del latino e della civiltà classica era molto più sentito e diffuso di oggi. Del resto il concetto di meta come traguardo ideale della vita, di uomo chiamato a una meta eroica, era dibattuto e propagandato in quegli anni di fascismo imperante.
In base alla nostra ricerca, "meta" come termine rugbistico apparve per la prima volta sul quotidiano La Stampa di Torino nel marzo 1934, mentre fino a quel momento la testata torinese aveva sempre utilizzato la dizione “essai”, presumibilmente per via dell’influenza francese non solo sulla città sabauda ma anche sulla diffusione del rugby in Italia. La prima partita di rugby nella nostra nazione fu infatti disputata nel 1910 proprio a Torino da due club francofoni: l’Universitaire di Parigi e il Servette di Losanna. Quello de "La Stampa" è l'unico archivio storico on line di un quotidiano che noi conosciamo, perciò la nostra ricerca non ha potuto contemplare altre testate.
A spingere verso il nuovo termine “meta!”, che ancor oggi usiamo quando segna la nostra squadra (quando segna quella avversaria ne utilizziamo altri), fu forse il processo di italianizzazione forzata del linguaggio, perseguita dal regime fascista proprio a partire dall’inizio degli anni Trenta con l'eliminazione di tutte le parole dal sapore straniero. Quale fu la persona che scelse specificamente "meta" non sappiamo, forse da qualche parte esiste ancora un dispaccio del regime che imponeva quel nome alle redazioni; o almeno che lo suggeriva, perché per molti mesi "meta" continuò a convivere nelle cronache rugbistiche insieme al vecchio e tranquillo “essai”.

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in questa illustrazione raffigurante il Circo Massimo di Roma le tre mete sono colorate in giallo, nero e rosso

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Anche in questa incantevole ricostruzione grafica della Città Eterna (no, non Reggio Emilia: Roma) di epoca classica si notano i due gruppi di tre mete alle estremità della spina, cioè di quella lunga struttura in pietra in mezzo alla pista

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ricostruzione grafica del Circo Massimo, da un programma tv francese
Tre mete si possono notare anche in alcune inquadrature del celebre film "Ben Hur" https://youtu.be/0jcRhrp03ME?t=600

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La prima apparizione che abbiamo trovato del termine "meta", inteso come marcatura nel rugby. Era il marzo 1934 e l'autore di quella prima meta-chiamata-meta fu il bolognese Brighetti; dovrebbe essere il bisnonno dell'attuale azzurrino Michele

Ilgorgo
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Re: Etimologie rugbistiche

Messaggio da Ilgorgo » 19 mar 2020, 11:32

Giochino: sapete qual è la particolarità di questo racconto?

Si era da poco alzato dalla PANCHINA e tutto BALDANZOSO si stava ancora sistemando il CIUFFO quando gli arrivò la PALLA; allora volò come una SCHEGGIA, fino a farsi dolere la MILZA. La meta sembrava ormai a poche SPANNE, ma era una TRAPPOLA! Qualcuno gli SGRAFFIGNO’ l’ovale e lui cadde nella MELMA, rimanendo di STUCCO. Gli venne un gran MAGONE e per il dispiacere iniziò a tremargli il LABBRO. “Che MANIGOLDO!”, pensò, mentre si sentiva già così STRACCO da avere i primi CRAMPI. “Adesso SPACCO tutto”, brontolò, “a costo di una ZUFFA generale!”. Ma poi si calmò: “SCHERZAVO”, disse, “andiamo a TRINCARE!”

m.map
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Re: Etimologie rugbistiche

Messaggio da m.map » 19 mar 2020, 13:35

azzardo: le parole evidenziate derivano dal longobardo e non dal latino
Padre nostro che sei nei cieli | restaci pure | quanto a noi resteremo sulla terra | che a volte è così bella. (J. Prevert)

Ilgorgo
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Re: Etimologie rugbistiche

Messaggio da Ilgorgo » 19 mar 2020, 13:55

Già risolto?

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