Questo è il link ma posto anche l'estratto dal blog:
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Ieri al funerale di Giuseppe D’Avanzo il suo amico Bruno Arpaia ha letto un articolo del 4 settembre 2007 di cui “Peppe” sembrava andare orgoglioso. A ragione. E’ un pezzo sul rugby, sulla sua etica e su come questo “giocare secondo le regole” sia agli antipodi del carattere nazionale italiano. Una lectio magistralis, forse meno nota, di uno che ce ne ha regalate tante.
Noi appassionati del rugby – diversi e un po’ sfigati come può esserlo
in Italia chi non ama il calcio – abbiamo un sogno: vedere l’ 8
settembre a Marsiglia, quando l’Italia giocherà con gli All Blacks la
partita di esordio dei Mondiali, il premier, il leader dell’opposizione.
Perché no?, il capo dello Stato. In buona sostanza, chi
ha sulle spalle la responsabilità di guidare il Paese. Per un motivo
elementare: abbiamo la convinzione che l’Italia abbia bisogno del
rugby; che i princìpi del rugby consentano di guardare meglio lo
«stato presente del costume degli italiani».
Siamo persuasi che questo gioco possa migliorare l’Italia. È un
mistero inglorioso, per gli italiani, il rugby. Pochi sanno
esattamente di che cosa si tratta. È un peccato perché il rugby ha le
stesse capacità mitopoietiche del calcio e, come il calcio, permette
di interpretare il mondo. Dalla sua, il football può vantare
moltissimi scrittori che si sono misurati con quest’impresa. Qui da
noi con il rugby si è misurato soltanto, che io sappia, Alessandro
Baricco con tre cronache (due su questo giornale) che, per noi del
rugby, sono ancora oggi una medaglia da mostrare in giro. Di quelle
cronache, negli spogliatoi e sugli spalti semideserti, se ne conoscono
le frasi a memoria. Un paio in particolare: «Rugby, gioco da psiche
cubista»; «Qualsiasi partita di rugby è una partita di calcio che va
fuori di testa». Non si discute la scintillante eleganza della
scrittura. Mi sembra, però, che la prova di Baricco confonda quel poco
che nel rugby è chiaro. «Psiche cubista». A naso, credo che si possa
contestare l’ accostamento tra i volumi, i vuoti del cubismo e il
rugby.
Il rugby è fatto di traiettorie e di pieni, quando è ben organizzato e
giocato. Se si apre un vuoto è per sfinitezza o errore tattico.
L’omogeneità dello spazio non interrotto, impenetrabile alle cose, di
Braque mi appare l’immagine rovesciata del rugby dove i giocatori
devono irrompere continuamente nello spazio altrui. Il fatto è che
faccio molta fatica a vedere nella leggiadria nuda e molle de Les
demoiselles d’Avignon di Picasso l’ di una “linea trequarti”, nella
certezza che non si possa trattare di un “pacchetto di mischia” (gli
“avanti” hanno troppo da fare là sotto per essere leggiadri).
Soprattutto i tempi non tornano.
Quando il cubismo nacque tra il 1907 e il 1908 al Salon d’Automne, il
rugby era già più che maggiorenne con i suoi ottantaquattro anni, se è
vero che uno spiritello anarchico consigliò a quel mattocchio d’
irlandese di William Webb Ellis – nel Bigside della “pubblic school”
di Rugby – di afferrare la palla con le mani e di non giocarla con i
piedi, il 1 novembre del 1823. Qualcosa sulla natura del gioco vorrà,
dovrà pure svelarsi se è nato nel terzo decennio dell’ Ottocento e non
nel primo del Novecento. La differenza – mi pare – è addirittura
decisiva per comprendere quale cultura, nella sua fase originaria, sia
custodita dal carattere del gioco. A cavallo di quel 1823 in
Inghilterra è in corso una rivoluzione.
Il Paese – il primo Paese urbanizzato e modernizzato della storia – è
“l’officina del mondo”, un vortice impetuoso di scienza, tecnologia,
industria, istruzione, cultura, riformismo politico che cancella le
antiche demarcazioni sociali tra signori e contadini, fra agricoltori
nelle campagne e artigiani nelle città. La forza di quel processo di
modernizzazione in movimento in quegli anni divide più che unire.
Nella grande Isola, scrive Benjamin Disraeli, ci sono “due Nazioni”:
«Non vi è comunità in Inghilterra. Crediamo di essere una Nazione e
siamo due Nazioni sullo stesso territorio, due Nazioni ostili nei
ricordi, inconciliabili nei progetti». (Già qui qualche eco della
nostra attuale condizione dovrebbe appassionarci).
Nella palude di una nazione divisa affiora la necessità di trovare
ragioni comuni, l’urgenza di creare un sistema educativo capace di
formare giuristi, medici, funzionari dello stato, scienziati che
sappiano – sì – lavorare con efficienza, ma siano anche consapevoli
dell’ interesse pubblico e dotati di “buone maniere”. In questo
bisogno prende forma l’idea di Thomas Arnold, preside della Rugby
School, l’autentico padre del gioco, al di là del mito fondativo che
fa di William Webb Ellis l’eroe. Egli immagina un nuovo modello
educativo fondato su una “cristianità energica”, sul servizio alla
collettività, sulla disciplina abbinata al senso di responsabilità;
una formazione innervata da valori che, senza rallentare “l’officina
del mondo”, cancelli la frattura che si è creata tra le “due Nazioni”
con il rispetto e la reciproca comprensione, una memoria comune, un
progetto non più “inconciliabile”, ma condiviso. (Quanto questo sia
necessario – oggi – all’ Italia è inutile dire).
Thomas Arnold è convinto che lo sport possa avere un ruolo essenziale
in questa missione. Il corpo lo si può dire veramente “formato”,
conclude, soltanto quando con tutte le sue risorse è al servizio di un
ideale morale. Lo sport non è più svago, allora. Diventa un cardine
della “formazione morale”. Se ogni ragazzo conosce la vittoria e la
sconfitta, si rafforza la sua stabilità emotiva. Lo si prepara al
servizio sociale perché si confronta con grande impegno in un quadro
di regole reciprocamente accettate. Gli si insegna a rispettare l’
avversario pur volendolo sconfiggere. Lo si educa ad accettare
serenamente e senza alibi l’esito della competizione. Una partita -
soprattutto la brutale franchezza di una partita di rugby – apre il
solco entro cui si definisce un ethos, un’idea di gentleman, un modo
di stare al mondo e con gli altri. Offre la possibilità di dimostrare
forza d’ animo, coraggio, capacità di sopportazione, tempra morale, la
materia grezza di quella etica del fair play, che trova il suo slogan
nell’esortazione vittoriana Play up and play the man! Gioca e sii
uomo.
Perdonatemi la tirata. Voglio dire che il rugby è spesso raccontato
con una retorica che lo rende irriconoscibile. Ai molti che non ne
conoscono le regole appare la sfrenatezza di un regime psichico
primitivo segnata dai gesti di ragazzotti saturi di irrequieto
testosterone. In questa luce, non se ne intravedono le metamorfosi di
comportamento che si consumano nel gioco né quanto quelle metamorfosi
siano indotte da un pratica auto-repressiva, governata dal Super-Io.
Credo che non sia coerente allora parlare di “follia”, di “caos”, di
«una partita di calcio che va fuori di testa». Il rugby è una faccenda
per niente caotica o folle. Quindici uomini (o donne) contro quindici,
separati con nettezza dalla linea immaginaria creata dalla palla, in
gara per conquistare l’area di meta e schiacciarvi l’ovale.
Si conquista insieme il terreno, spanna dopo spanna. Lo si difende
insieme. Non esiste Io, se non vuoi andare incontro a guai seri per te
e la tua squadra. Esiste soltanto Noi. Il rugby è lineare, addirittura
spudorato nella sua essenzialità. È colto perché, nonostante l’
apparenza, è l’esatto contrario di tutto ciò che è naturale. Nelle sue
manifestazioni migliori, mai scava nella cloaca degli istinti o nel
gorgo emotivo. Al contrario, impone controllo. Dicono che educhi, ma
istruisce. Dicono che dia carattere, invece accultura. Postula una
placenta comunitaria; un pensiero ordinato; paradigmi condivisi senza
gesuitismi o imposture.
Nessun odio e, per riflesso, nessuna paura (l’odio è paura
cristallizzata, odiamo ciò che temiamo). Sottende una forza spirituale
prima che fisica. Esclude la mossa furbesca, la sottomissione
gregaria, l’arroganza del prepotente. Aborre ogni cinismo
immoralistico perché è capace di essere schietto e leale nonostante la
violenza o forse proprio grazie a quella. Dite, si può immaginare
qualcosa di meno italiano? Ogni passo nel rugby (valori, pratiche,
comportamenti, riti) è in scandalosa contraddizione con quella
specificità italiana che glorifica l’ingegno talentuoso e non il
metodo. La furbizia e non la lealtà. L’inventiva e mai la
preparazione. Il “miracolo” e mai l’organizzazione. L’individualità e
mai il collettivo. Il caldo piacere autoreferenziale del “gruppo
chiuso” e mai il desiderio di farsi stimare da chi al “gruppo” (ceto,
famiglia, corporazione) non appartiene: la più grande soddisfazione di
un giocatore di rugby, anche se sconfitto, è l’ammirazione che suscita
nell’ avversario. Il rugby – la comprensione del gioco, della sua
nervatura, del suo spirito e consuetudine – spiegano, come meglio non
si potrebbe, il deficit del carattere italiano e le debolezze del
nostro stare insieme.
Ecco perché a noi del rugby piace pensare che questo gioco così
estraneo all’identità nazionale possa offrire, felicemente, un esempio
per riformarla. L’appuntamento è al Velodrome di Marsiglia, l’ 8
settembre. Le prenderemo, ma non importa. Play up and play the man!
D’Avanzo e il rugby come metafora (di ciò che non siamo)
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