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<BR>ecco la recensione:
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<BR>Pagano Flavio
<BR>Quelli che il rugby...
<BR>Un racconto ovale
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<BR>Questo è forse il primo romanzo italiano dedicato al rugby, uno sport così ricco di implicazioni filosofiche e allegoriche che appassiona un pubblico sempre più vasto anche nel nostro paese. Con incredibile maestria e competenza, Pagano riesce a trasmettere, nel racconto di una partita, tutta la suspence e lo spirito di questo gioco, ma anche i significati reconditi e inaspettati che in esso si nascondono. “Distinzioni oziose come il fuorigioco, passivo o attivo, non hanno significato nel rugby. Il rugby è azione. Perché tutto quanto vi è di mistico e di metafisico è contenuto nella pura e semplice palla-uovo. I giocatori ne devono subire i capricci del rimbalzo, perché sono mortali e non possono essere padroni del destino: non fanno parte del mondo soprannaturale che l’ovale rappresenta. Essi sono ben piantati con i piedi per terra, e devono spingere, correre, placcare: sopravvivere”. Un racconto che trasforma una partita giocata all’ultimo respiro in un’esperienza assoluta.
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<BR>PREFAZIONE
<BR>Peter Freeman
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<BR>Spiegare il rugby a un profano è un esercizio impegnativo. Intanto ci sono un bel po’ di regole che disciplinano il gioco, e non sono per nulla semplici. Regole di gioco ma anche regole morali. Se poi il profano è un calciofilo, vale a dire l’esponente di un mondo agli antipodi di quello dell’ovale, il compito è quasi impossibile. Per quanto uno ci si metta di buzzo buono, lo scarto culturale è praticamente incolmabile. Ci ho provato personalmente molte volte, invitando amici a vedere insieme una partita, ma sempre con scarsa soddisfazione. In genere si comincia con le battute sull’aspetto fisico degli “avanti” (soprattutto le prime linee), si prosegue con la contestazione delle decisioni arbitrali e si conclude il confronto con le critiche del profano alle fasi di gioco statiche, le mischie chiuse o le ruck, giudicate “noiose”. A quel punto di solito giunge la frase che chiude ogni possibilità di dialogo: «Non sta succedendo nulla». E lì scatta la lite.
<BR>Una cosa è chiara: il rugby sarà anche nato, nel 1823, da una costola del calcio (il quale è nato a sua volta da qualcosa di molto simile al rugby, si pensi al calcio in costume fiorentino), ma le due discipline sono divise da un baratro profondo che è essenzialmente di natura culturale. Non c’è rugbyman che non consideri il calcio un gioco molto meno interessante del rugby e che non ritenga la gran maggioranza dei suoi adepti, praticanti o tifosi che siano, dei pessimi sportivi. Al tempo stesso non vi è tifoso di calcio, almeno sul suolo italico, che non ignori quasi tutto dell’ovale. È ovvio che in questo modo i due mondi sono destinati a rimanere distanti per chissà ancora quanto tempo, ma forse è meglio che le cose stiano così. In ogni caso è pressoché impossibile immaginare un calciatore che si comporti da rugbyman, rinunciando ad esempio a protestare con l’arbitro per qualsiasi decisione avversa, ed è altrettanto impensabile un giocatore di rugby che sputi addosso ad un avversario. Dunque tanto vale chiudere qui la discussione su calcio e rugby.
<BR>E allora parliamo di questo libro che sta tutto dentro il racconto di una partita di rugby tra due squadre senza nome come ce ne sono tante. Una partita che si gioca su un campo di patate, con la pioggia che viene giù e la poca erba rimasta che diventa pozzanghera. I campi da rugby li riconosci da lontano, sono inconfondibili. Li curano poco nella convinzione che non serva a nulla perché tanto ci pensano i giocatori a rovinarli. E poi ci sono le porte che, come ci ricorda Pagano, «si ergono come enigmatici simboli di una Civiltà dimenticata». Le porte del rugby non si violano né si penetrano, e neppure servono a delimitare uno spazio, giacché l’area di meta è già definita da una linea. Sono dei monumenti che si stagliano assurdamente verso l’alto, mentre tutto o quasi si svolge in basso, con trenta umani che arrancano per linee orizzontali. Il fatto poi che la palla ovale debba essere calciata in mezzo ai due pali verticali e al di sopra di un terzo palo posto in orizzontale a formare una H, questo è del tutto trascurabile. Il drop o il penalty valgono ai fini del punteggio, ma ciò non basta a spiegare la vera ragione di quelle porte dalla forma così strana. C’è uno scarto evidente tra forma e sostanza, tra lo scopo del gioco e lo spazio in cui esso si svolge.
<BR>È chiaro che il rugby è uno sport da matti. Vi è della pazzia in un gioco basato sull’avanzamento e sulla conquista degli spazi ma nel quale il pallone può essere passato unicamente all’indietro. È una follia inventarsi una palla ovale invece che rotonda, una palla che rimbalza come gli pare, con tutti i capricci del caso. Infine, è certamente una stramberia mettere in campo quindici giocatori che costituiscono un campionario della diversità fisica anziché un insieme armonioso di uguali (sarà per questo che il rugby non attecchì nella Germania nazista?).
<BR>Aggiungo che un racconto che si svolge per intero dentro una partita di rugby costituisce una notevole follia editoriale. Di sicuro è una sfida per il lettore a digiuno di cose di rugby. Ma una partita è costituita da un insieme di tante cose. «È la vita, è la vita. È la morte, è la morte…», la haka maori che i giocatori neozelandesi inscenano davanti agli avversari all’inizio di ogni match incomincia proprio con queste due strofe. Nel racconto di Pagano l’allenatore somministra invece la seguente raccomandazione ai suoi giocatori: «Non importa che vinciate o perdiate, ma dopo la partita non dovete avere la forza né di esultare né di rammaricarvi. In campo bisogna dare tutto. Quando la partita è finita, bisogna essere morti». Ovviamente il rugby non richiede a nessuno di morire, ma è certo che a nessun giocatore degno di questo nome è dato di uscire dal campo senza pagare il pegno di una fatica immensa.
<BR>Non è un caso se il ruolo che più di tutti incarna lo spirito del rugby è quello dell’avanti, il giocatore cui più di ogni altro è richiesto di dannarsi l’anima in un lavoro di pura fatica e scarsa visibilità, e tuttavia tanto prezioso e sentito come indispensabile dai suoi compagni. L’avanti di solito è fatto così: un centinaio di chili malamente distribuiti, una pancia da gran bevitore di birra, collo taurino ed orecchie “a foglia di cavolo”, rotte od usurate dallo sfregamento contro corpi, teste o tessuti altrui. Lo spettacolo migliora con le terze linee, cui è concesso, in virtù della geometria e delle dinamiche del pack, di non ficcare la propria testolina nel bel mezzo del pacchetto di mischia. Resta però celebre la frase di Jean Pierre Rives, leggendaria terza linea ala francese: «Io metto la faccia dove altri non oserebbero mettere i piedi». Questo vi dà l’idea di che razza di vita faccia uno che ha scelto di giocare lì davanti.
<BR>Le prime volte in cui ho assistito a delle partite di rugby ricordo che c’era qualcosa che mi sfuggiva. Non riuscivo assolutamente a capire il senso delle mischie chiuse, quei due raggruppamenti di corpi che cozzavano l’uno contro l’altro mentre l’ovale, che il mediano di mischia aveva gettato nel corridoio che si forma tra le prime linee del pack, veniva “tallonato” verso il fondo per essere raccolto o dal mediano stesso o dal terza-centro. Mi sembrava uno sforzo inutile e bestiale, qualcosa di totalmente sproporzionato ai fini dello sviluppo dell’azione di gioco. Mi era stato allora spiegato da chi se ne intendeva che in quel grumo di corpi allacciati si giocavano le sorti della partita, che il prevalere di questo o quel pacchetto di mischia era decisivo per il proseguo del match e per il morale di tutta la squadra, che quello scontro titanico aveva un valore anzitutto simbolico. Si segnava il territorio, si stabilivano le gerarchie e i rapporti di forza: qui comandiamo noi. Se volete, è molto animalesco e molto maschile, ma il rugby è questa cosa qui.
<BR>Dunque poco per volta ho cominciato a capire il senso di quelle mischie. Ho capito che ci vuole forza ma anche tecnica, che non basta essere grossi ma bisogna padroneggiare i trucchi del mestiere. Che in quella manciata di secondi si sprigiona uno sforzo poderoso che nulla potrebbe se non si dispiegasse al contempo un’intelligenza collettiva. Ho capito ma tuttavia, non avendo giocato a rugby, non conosco, non so. Non conosco quella che Pagano chiama «la lotta segreta, sotterranea e misteriosa» che si combatte in prima linea. Quella la conosce soltanto chi è stato lì dentro, nella caverna del pack. Ne posso immaginare gli odori, i rumori e gli sguardi, ma il resto è segreto: la mischia ordinata è, per definizione, un mondo chiuso. Gli altri, i trequarti, se ne stanno lontani, a rispettosa distanza. Aspettano che le cose si siano definite, che la palla ovale esca da una parte o dall’altra, in maniera tranquilla e pulita o, invece, faticosa e sporca. Se i trequarti – «i signorini, la cavalleria leggera», come li definisce Marco Paolini nei suoi monologhi rugbistici – sono spesso guardati con sospetto dai loro compagni non è perché battono la fiacca ma per la loro sostanziale estraneità ai misteri della mischia.
<BR>Dicono che il rugby stia uscendo dallo stato di semi-clandestinità in cui è stato storicamente confinato, in un Paese che respira calcio da mane a sera, rinchiuso in alcune enclave geografiche e a lungo destinato a pochi intenditori. Certamente l’ingresso dell’Italia nel Sei Nazioni – il più antico e nobile dei tornei di rugby –, assieme alla programmazione dei più importanti match sui canali satellitari, hanno giovato alla sua diffusione presso il grande pubblico. Resta il fatto che uno sport seguito in tutto il mondo in Italia continua a coinvolgere poche migliaia di tesserati, e che le partite del nostro campionato assomigliano a riti per pochi adepti che vanno in scena su campi sperduti, tra le nebbie della Bassa padana (quanti di noi hanno mai sentito parlare di Viadana o di Calvisano?), in Abruzzo o nel Veneto. Mi chiedo peraltro se sarebbe possibile immaginare un racconto come quello di Pagano ambientato in un altro sport. Penso di no. Bisogna avere il rugby nel sangue per immaginare le dimensioni parallele dell’anticampo e dell’antipartita, dove regna il mostruoso antigioco, e dove tutto ciò che nell’ovale ha un senso perde di significato e di valore: «Nell’antigioco non ci si passa la palla, non si fischiano falli, non ci sono regole né principii. Nell’antigioco, il Pallone è morto». Sono certo che ad ognuno di noi è accaduto: almeno una volta nella vita ci siamo trovati in una selva oscura, un’anticamera di un anticampo dove si praticava un antigioco. Il problema è come uscirne. In questi casi ci vorrebbe un pallone. Un pallone ovale.