Segnalo questo post, scritto da Francesco Bianchi Schenal, che mi sembra ricco di spunti di riflessione:
https://www.facebook.com/697183536/post ... 73537/?d=n
RUGBY: LE ELEZIONI FEDERALI E I SETTE NANI (post molto lungo, astenersi perditempo)
Il 13 marzo 2021 saranno rinnovati i vertici della Federazione Italiana Rugby per il quadriennio olimpico 2020-2024. Pare che l’evento elettorale preveda il solito assembramento romano, questa volta presso la Nuova Fiera, sebbene in tempi di pandemia sia preferibile procedere con interventi in streaming e seggi elettorali decentrati a livello regionale, anche per evitare il solito e squallido mercato delle deleghe (che semplicemente abolirei), come sottolineato da qualcuno. Tant’è.
Veniamo subito ai sette candidati di queste elezioni e alle possibili ripercussioni sul movimento nel caso vinca l’uno o l’altro. È facile da pronosticare, a prescindere dal vincitore: non cambierà nulla. Non cambierà nulla perché ci troviamo di fronte al nulla programmatico e manageriale, quantunque fra i candidati e le loro squadre di lavoro si trovino persone di indubbio valore sportivo e professionale. Non cambierà nulla perché, al di là delle dichiarazioni d’intenti più o meno generiche e di qualche intervista, 4 candidati su 7 non hanno presentato alcun programma ufficiale scritto e pubblicamente consultabile, mentre nei restanti 3 casi i programmi scritti e pubblici ci sono, ma quasi privi di quantificazione degli obiettivi da raggiungere: sono cioè programmi ingiudicabili e per questo fondamentalmente inutili, quantunque pretendano il contrario, senza alcuna valida giustificazione di metodo e di merito.
Taccio sulle candidature dell’ultimo minuto, comparse a Natale come le statuine del presepe, magari per assicurarsi un posto nel nuovo consiglio federale, facendo convergere al momento opportuno il proprio manipolo di voti su questa o quella persona, in cambio di qualche delega (cioè biglietti e viaggi gratis con le selezioni nazionali). Personalmente trovo poco opportune anche le candidature di chi ci ha già provato in passato, fallendo (repetita iuvant o perseverare autem diabolicum?). Ma osserviamo più in dettaglio questo sconsolante panorama, partendo dall’elenco dei candidati (in ordine alfabetico per cognome).
GIANNI AMORE. Ha già perso le elezioni del 2012. A due mesi dalle votazioni non ha ancora presentato un programma pubblico (o almeno io non l’ho trovato) né una squadra di lavoro.
ELIO DE ANNA. Ho dovuto penare l’anima per trovare on line il programma del suo movimento “Rugbisti per Sempre”, diviso in 31 punti, con impaginazione molto approssimativa. Sono asserzioni abbastanza generiche, che però hanno il pregio di indicare alcune cifre e, in effetti, il programma allude a «obiettivi puntuali e misurabili», anche se consente di misurare solo i soldi che il candidato intende elargire per guadagnare i voti dei club alle elezioni. Le uniche quantificazioni riguardano furbescamente proprio le “mance elettorali” da spartirsi ogni stagione: 3.000.000 euro per le squadre di Top 10 (ma forse Top 12), 2.000.000 euro per le 30 squadre di serie A maschile, 4.500.000 euro per le squadre di serie B e C, 1.500.000 euro per le squadre femminili, insieme al rimborso di max 4.000 euro per le squadre U20 maschili. Ce n’è per tutti e così un quarto abbondante del bilancio federale sarebbe scialacquato per foraggiare il rugby seniores dilettantistico (cioè rimborsi per atleti e staff tecnici + costi trasferte), ma non è chiaro con quali vantaggi per la crescita del movimento, dal momento che le cifre da erogare non sembrano vincolate al sostegno di investimenti redditizi (ad es. nella comunicazione, nel marketing, nel reclutamento, nella formazione ecc.), bensì intese a pagare conti poco conciliabili con il bene comune: caro De Anna, bisogna stimolare i club a procurarsi quelle risorse da sé, non alimentare l’assistenzialismo federale (tradotto: investiamo quelle risorse per reclutare e/o formare manager sportivi, non per creare mantenuti). Trovo anche una cifra di 410.000 euro per l’organizzazione dei concentramenti di minirugby, riservata però solo ai club di Top 10 e serie A (almeno così sembra, ma si tratta di un paragrafo piuttosto confuso): insomma, al rugby di base diamo 30 volte di meno rispetto al rugby seniores dilettantistico? Poi 1.500.000 euro (annui?) sono destinati ai Comitati regionali e 2.600.000 euro agli arbitri. Non c’è alcuna quantificazione degli obiettivi primari da raggiungere. Nella squadra di lavoro si citano solo i francesi Olivier Magne e l’ormai anziano Pierre Villepreux.
ALFREDO GAVAZZI. Dobbiamo ancora parlarne? In ogni caso, l’impresentabile non ha fornito né programma né squadra di lavoro insieme alla sua candidatura.
MARZIO INNOCENTI. Ha già perso le elezioni del 2016. Il suo movimento “Renovatio Italia Rugby” dispone di un sito web da cui ricavare il programma e la squadra di lavoro. Nel programma si citano 2 allegati, tuttavia non reperibili (ma forse sono io che non riesco a trovarli). Dei membri della squadra di lavoro non sono chiare le deleghe, tranne quella del candidato alla presidenza dei revisori dei conti. Come nel caso del programma di De Anna, non c’è alcuna quantificazione degli obiettivi primari da raggiungere e l’unica cifra indicata in 10 pagine sono i 4.000.000 euro (annui?) per i Comitati regionali. Tuttavia, si precisa che «verranno implementati modelli manageriali funzionali alla misurazione dei risultati rispetto agli obiettivi attesi, così da poter monitorare lo stato di avanzamento dei lavori e le capacità dei preposti alla loro realizzazione». Ok, ma dove sono questi modelli e come posso monitorare lo stato di avanzamento lavori se il programma non indica né il punto di partenza né quello di arrivo in termini quantitativi e misurabili?
GIOVANNI POGGIALI. Il suo movimento “Pronti al Cambiamento” dispone di un sito web da cui ricavare il programma e il direttivo del movimento stesso, ma non è chiaro se il direttivo coincida o meno con la squadra di lavoro del candidato alla presidenza. Il programma propone una minima analisi del pregresso, tuttavia con poche quantificazioni, mentre non sono mai quantificati gli obiettivi primari, ricavabili da affermazioni molto generiche e fumose, nonostante si notifichi che gli «obiettivi, bilanciati dall’analisi della situazione attuale, necessitano di indicatori misurabili per poter monitorare l’andamento del movimento nel corso degli anni». Anche qui, però, ci si ferma alle dichiarazioni di principio e non c’è traccia di indicatori o parametri che permettano alcun tipo di monitoraggio oggettivo.
NINO SACCÀ. È la candidatura più sospetta, priva di qualunque programma e squadra di lavoro. Ha tutta l’aria di essere una manovra elettorale per conservare la “carega” (“cadrega” per i lombardi) nel Consiglio federale e relativi benefit.
PAOLO VACCARI. Anche questa è una candidatura natalizia, senza programma né squadra di lavoro, entrambi annunciati ma ancora non divulgati.
Ora, lasciamo da parte le candidature senza programma, che si dovrebbero scartate a priori, altrimenti si degenera nel voto di scambio, cioè nell’intrallazzo interpersonale, tenuto conto che chi vota non rappresenta solo sé stesso, bensì club, atleti e tecnici che scelgono i propri delegati presso la sede elettorale. Ovviamente si valutano anche i profili dei candidati presidenti e le loro squadre di lavoro, ma soprattutto i loro programmi in chiave comparativa, un’operazione che all’interno dei club e dei territori richiede tempo e non può essere affidata a valutazioni dell’ultimo minuto, cioè a programmi pubblicati frettolosamente qualche giorno prima delle elezioni o addirittura alle arringhe di rito dei candidati pochi minuti prima dell’apertura delle urne. Detto ciò, mi concentro sui tre programmi ad oggi noti, che accusano tutti simili mancanze, sebbene in misura differenziata. Procedo per punti.
1) Quando presenti un programma di governo o di sviluppo devi mettere l’elettore nelle condizioni di poter giudicare la credibilità della proposta prima del voto e il raggiungimento o meno degli obiettivi annunciati alla fine del mandato. Perché succeda è necessario che gli obiettivi siano quantificati, cioè che siano “misurabili”, altrimenti resta tutto molto vago e ambiguo, lasciando a chi presenta il programma stesso la possibilità di ricorrere ad alibi e scappatoie per giustificare eventuali fallimenti. Non basta annunciare il ricorso a criteri oggettivi di monitoraggio, occorre esplicitarli con cifre e percentuali, grafici e tabelle.
2) La quantificazione dei risultati da raggiungere deve muovere dalla quantificazione del pregresso, altrimenti diventa impossibile misurare la differenza fra il prima e il dopo.
3) L’individuazione e la quantificazione degli obiettivi primari ( = cosa) richiede la chiara definizione dei processi ( = come), dei responsabili ( = chi), delle tempistiche ( = cronoprogramma) e delle risorse impiegate ( = con quali mezzi). In caso contrario non sarà possibile valutare le cause e i responsabili di eventuali fallimenti, così come dei successi.
Facciamo qualche esempio concreto, muovendo dai massimi sistemi. Ogni federazione ha come punto di riferimento principale la nazionale maggiore, i cui risultati agonistici rappresentano lo stato di salute della federazione stessa e i cui successi costituiscono l’obiettivo primario. Bene, misuriamo questo parametro attraverso indicatori oggettivi, come il ranking mondiale: l’Italia era all’11° posto alla fine del 2003 (anno in cui fu introdotto il ranking), arrivò al 9° posto nella primavera del 2007 e ora si trova al 14° posto, di un nulla sopra a Samoa e in serio pericolo di scivolare presto al 15° posto. Su questo punto il programma di De Anna non dice nulla di significativo. Innocenti scrive che «è essenziale il miglioramento delle prestazioni della nostra Squadra Nazionale, oggi troppo modeste», mentre Poggiali afferma di voler «portare la Nazionale Italiana a competere per la vittoria con le Nazionali ai primi posti del Ranking Mondiale». Fuffa. Un programma serio dovrebbe dire: oggi siamo al 14° posto del ranking ed entro il termine del prossimo quadriennio intendiamo arrivare al XX posto, magari con una proiezione anche per il quadriennio successivo e per quello dopo ancora, cioè a 4, 8 e 12 anni di distanza, precisando come, con quali risorse, con quali tempistiche e con quale struttura organizzativa. Così prima del voto l’elettore potrà valutare la sostenibilità del progetto e alla fine del mandato sarà in grado di misurare i risultati ottenuti.
Non ti piace il ranking? Ok, prendiamo le vittorie al 6 Nazioni, in tutto 12 su 105 partite disputate dal 2000 a oggi, l’ultima vittoria nel 2015: un serio programma dovrebbe definire la percentuale di vittorie nei prossimi 4 anni, anche con proiezioni a 8 e 12 anni, oppure il posizionamento in classifica, e poi definire come arrivarci. Oppure indicare l’edizione dei mondiali per la quale si prevede il passaggio ai quarti, sempre elencando analiticamente processi, costi ecc. Così si valuta la serietà, l’accuratezza e l’attendibilità di una proposta. Non scrivendo “vogliamo vincere di più”: tutti vogliono vincere di più, ma non è la speranza di vittoria a fare la differenza, bensì le azioni che metti in pratica per superare i tuoi avversari e raggiungere quel risultato, cioè processi che non si possono lasciare al destino o ai buoni propositi. Lo stesso approccio andrebbe poi replicato per la nazionale femminile e seven maschile e femminile, invece dobbiamo accontentarci delle dichiarazioni di circostanza rilasciate da candidati alla presidenza incapaci di definire anche un solo processo operativo in forma analitica e quantificabile.
Un altro aspetto cruciale riguarda la filiera selettiva per affrontare gli impegni internazionali. Le nazionali maggiori sono alimentate dai prodotti dei settori giovanili locali, più oriundi ed equiparati. Bene, come si intende gestire queste diverse componenti? Che percentuale del budget federale investiamo per migliorare la formazione interna? Che percentuale per “nazionalizzare” oriundi ed equiparati? Nella World Cup 2019 l’Italia ha schierato 8 fra oriundi ed equiparati e 12 ex “accademici” su 31 atleti convocati: qual è stato il loro minutaggio medio? Nei prossimi 4 anni come saranno trattate queste quote? Si vuole investire di più da una parte o dall’altra? E quanto? E come? E perché? Non è dato saperlo.
A proposito di accademie, i programmi noti esprimono parecchie riserve in merito, ma nessuna valutazione quantitativa del pregresso. Mi rendo conto che i bilanci federali sono compilati con modalità piuttosto oscure e bizantine, però una seria analisi deve poter contabilizzare i costi complessivi di mantenimento delle accademie e dei centri di formazione dalla loro istituzione (2006), dividerli per il numero di atleti accademici che hanno esordito con la nazionale maggiore accumulando un minimo di caps (mettiamo una decina o giù di lì) e ottenere così il costo pro capite, cioè quanto ci costa portare stabilmente in nazionale un atleta attraverso il percorso accademico, un indicatore chiaro, oggettivo e confrontabile. Confrontabile con cosa? Ad esempio con le spese per reclutare oriundi ed equiparati: costa mediamente di più portare un accademico, un oriundo o un equiparato in nazionale? Il costo di un accademico italiano che arriva in nazionale è superiore o inferiore ai costi degli accademici che diventano internazionali in altri paesi, sia in termini assoluti sia in termini percentuali rispetto ai relativi budget federali? Un accademico italiano “dura” mediamente di più ( = accumula più caps internazionali) o meno di oriundi ed equiparati? Le sue prestazioni agonistiche (ci sono tutte le statistiche prestazionali a disposizione) sono mediamente migliori di oriundi ed equiparati oppure no? Solo dopo analisi di questo tipo posso formulare una proposta di programma accettabile e non aleatoria, i cui esiti potranno essere comparati con il sistema che si intende sostituire, ma i piani dei nostri candidati nulla dicono a proposito.
Veniamo ai numeri dei tesserati, altro tasto dolente e del tutto trascurato dai nostri programmi presidenziali, ma essenziale per la prosperità del movimento. Anche un cretino capisce che più ampia è la base più alte sono le probabilità di intercettare talenti in grado di competere a livello internazionale. Il talento dipende dalla costituzione biologica dell’atleta, cioè dall’insieme innato e geneticamente predefinito delle sue abilità motorie, sensoriali e cognitive: i processi formativi non creano i talenti, ne sviluppano solo il potenziale (o lo disperdono). Mi fanno sorridere quei club che, pur non avendo mai brillato per i risultati delle loro squadre giovanili, si vantano di aver “formato” questo o quel giocatore approdato poi in nazionale. Se così fosse, cioè se i loro processi formativi fossero veramente in grado di “creare” talenti, ne avrebbero prodotti molti altri. Invece hanno avuto solo la fortuna o la bravura di reclutare un ragazzino che sarebbe comunque diventato un campione, muovendo da qualunque club. Il talento naturale è destinato ed emergere a prescindere dal club di partenza e a volte anche dallo sport di partenza: prima o poi ci sarà chi lo nota e lo indirizza verso un percorso di alto livello, che non crea alcuna abilità, ma sviluppa e affina quelle già date o, se mal gestito, le spreca. Ora, non dev’essere difficile calcolare quanti talenti reclutati dai vivai italiani sono stati in grado di raggiungere l’alto livello internazionale e qual è la loro percentuale sul totale dei coetanei tesserati nel tempo. Quella percentuale, che immagino abbastanza stabile all’interno delle varie coorti, ci dice che più ragazzini inizieranno a giocare a rugby più alto sarà il numero assoluto dei talenti a disposizione delle nazionali e dei club impegnati in competizioni internazionali. Ne segue che per migliorare le prestazioni del rugby italiano occorre incrementare i due fattori di base: la quantità (di atleti) e la qualità (dei processi formativi), cioè più atleti su cui applicare migliori processi formativi.
Partiamo dalla quantità, il fattore apparentemente più scontato (e anche il più difficile da rintracciare nei documenti ufficiali). In Italia, se i dati che ho recuperato in rete sono affidabili, siamo passati da circa 25.000 giocatori tesserati nel 2000 (compreso settore femminile e old) a più di 87.000 nel 2016, ma da allora i numeri hanno cominciato a regredire e sicuramente l’epidemia di Covid ha inferto una terribile mazzata ai tesseramenti, in tutti gli sport. Un confronto con altri paesi è sempre difficile, perché non è mai chiaro se le cifre riportate anche nei siti ufficiali comprendano solo gli atleti o anche tecnici e dirigenti, se fra gli atleti siano inclusi o meno i praticanti di tag, touch, beach e rugby scolastico, se le statistiche riguardino solo il settore maschile o includano quello femminile ecc. In ogni caso, l’Italia ha probabilmente un numero di tesserati superiore alla Scozia, simile al Galles e inferiore all’Irlanda, ma con una popolazione che è 4,5 volte maggiore rispetto a quella degli altri tre paesi messi insieme. Un confronto attendibile non può dipendere, quindi, dalle cifre assolute, ma da quelle relative, cioè in rapporto alla popolazione: nel 2015 in Irlanda il rapporto tra tesserati e popolazione era di quasi il 4%, in Galles e Scozia di circa il 2%, in Italia dello 0,128%. Un confronto su cifre assolute si può avanzare solo con paesi di pari peso demografico, come la Francia, che nel 2017 contava 335.000 giocatori tesserati contro gli 82.000 dell’Italia.
Ho parlato di atleti tesserati, ma sarebbe più corretto esprimersi in termini di atleti praticanti, perché pare che in Italia i due gruppi non coincidano (anche su questo delicato punto i nostri programmi stanno zitti). Una ricerca condotta da Raffaello Salvan nel 2015, per conto del Comitato Regionale Veneto, aveva appurato che la differenza fra atleti tesserati e praticanti si attestava intorno al 30%, cioè che quasi un terzo dei tesserati in realtà non si allenava e non giocava. Bisogna tenerne conto quanto si ragiona sulle cifre del movimento, come bisogna considerare la difforme distribuzione di atleti e club a livello regionale.
Ok, direte voi, se più atleti praticanti (non solo tesserati) vuol dire più talenti e più talenti vuol dire squadre nazionali e di club più competitive, allora penserete che i programmi dei nostri candidati preciseranno senz’altro quanto intendono aumentare il numero dei praticanti nel prossimo quadriennio olimpico, magari con proiezioni a 8 e 12 anni, e come intendono farlo, con quali risorse ecc. Tenete poi conto che più praticanti vuol dire anche più famiglie che mangiano e comprano rugby, che spendono nelle club house, che guardano partite in tv, che ne parlano e lo promuovono, così come più squadre, più club, più tecnici, più dirigenti, più competitività e così via. Invece no, zero, nada, nisba, niet. L’argomento è tabù e al massimo si trova qualche blando e illusorio riferimento alla promozione del rugby scolastico (ovviamente senza cifre), considerato come panacea di tutti i mali del nostro movimento. De Anna parla solo di «partnership con gli Istituti scolastici nella promozione e ricerca del talento» e pretende di trasformare le università italiane in college anglosassoni (come? con quali obiettivi numerici? con quali risorse?). Poggiali tace. Innocenti presenta un “progetto scuola” che dovrebbe dipendere da un accordo con il Ministero dell’Istruzione «per introdurre il Rugby nelle scuole su scala nazionale» (come? con quali mezzi? litigando con le altre discipline sportive che pretenderebbero pari opportunità presso il Ministero?).
La mia esperienza di lungo corso nel mondo del rugby ha solo valore aneddotico e impressionistico (non statistico), però non credo di sbagliare molto se dico che ormai la gran parte del reclutamento avviene entro l’U12 e tende a concentrarsi soprattutto fra U8 e U10, almeno per il rugby maschile (in quello femminile l’età del primo reclutamento è mediamente più alta e richiede strategie diverse, del tutto trascurate dai nostri candidati alla presidenza FIR). Per i maschi le categorie juniores sembrano incidere poco in termini di nuovi tesserati. Non solo, il monitoraggio del reclutamento condotto per alcuni anni all’interno di un grosso club come il Valsugana indicava che la percentuale dei nuovi atleti provenienti da contatti scolastici era insignificante rispetto al passaparola e agli eventi organizzati dal club (come gli open day). Eppure nei programmi si insiste ancora con le scuole, per altro senza alcuna differenziazione fra primaria e secondaria, come se fosse la stessa cosa rivolgersi a un bambino piuttosto che a un adolescente, a fronte di probabilità di successo molto diverse e dell’impossibilità di stabilire un contatto diretto con i genitori, non irrilevanti nella scelta dello sport dei figli.
Appurato che i nostri candidati non hanno le idee chiare su come condurre le politiche di reclutamento, qualcuno potrebbe chiedersi perché la nazionale italiana è meno competitiva di Scozia e Galles, a fronte di un superiore o pari numero di atleti tesserati (ma bisogna sempre ricordarsi del problema “praticanti”). Qui interviene il fattore culturale, spesso invocato come male incurabile del rugby azzurro. Si dice che l’Italia non ha una tradizione rugbistica paragonabile a quella anglosassone e quindi non riuscirà mai a gareggiare veramente con le unions britanniche. Ci si dimentica che nessuna tradizione è data sin dalla sua comparsa. Anzi, ogni tradizione nasce inizialmente come novità e si può installare attraverso un’opportuna organizzazione. In Italia ce l’ha insegnato Velasco con il volley, all’estero paesi come Argentina, Giappone e Georgia nel rugby. L’altro aspetto da considerare riguarda la qualità del reclutamento: in Italia il rugby non è tendenzialmente una prima scelta per il ragazzino che si avvicina allo sport, in Scozia o in Galles lo è molto di più. Ciò comporta che i ragazzini britannici più competitivi scelgano più frequentemente il rugby di quanto non succeda in Italia e, di conseguenza, che siano mediamente più combattivi, sebbene il numero dei tesserati scozzesi e gallesi non sia superiore a quello italiano. Stiamo ragionando ancora su un piano culturale. Ma come si invertono queste tendenze? Sicuramente le vittorie internazionali aiutano molto: lo indicano le ripercussioni positive in termini di tesseramenti generate dai successi olimpici di schermitrici o nuotatrici italiane a favore delle rispettive federazioni. Però la nazionale italiana perde spesso, quasi sempre. Come fare allora? Una strada alternativa è promuovere l’immagine del rugby con opportune strategie di comunicazione & marketing, una soluzione pare sconosciuta sia alla FIR sia ai nostri candidati. D’altra parte, non ci si può aspettare molto da una federazione che nei suoi uffici centrali ha più magazzinieri di addetti marketing (3 vs 2). Eppure non sono mancati validi testimonial o influencer: ho visto Castrogiovanni fare pubblicità a tutto, fuorché al rugby. Qualcuno ricorda campagne pubblicitarie a favore del rugby su scala nazionale o regionale? Io no. Bisogna dire che i nostri candidati non fanno di meglio: la parola “marketing” semplicemente non compare nei programmi di Innocenti e Poggiali, compare tre volte in quello di De Anna, ma senza alcun contenuto specifico o budget dedicato.
Veniamo ora alla qualità dei processi formativi, sebbene sulla quantità dei tesserati (rectius praticanti) i programmi elettorali nulla dicano di preciso e quantificabile. È tutto molto ovvio e scontato: per formare buoni atleti servono bravi tecnici e preparatori fisici, oltre ad adeguate infrastrutture e attrezzature. Limitiamoci a considerare tecnici e trainer. Il programma di De Anna si riferisce alla necessità di impiegare in campo «validi educatori», «capaci preparatori atletici e tecnici», «personale specializzato» (sarebbe preoccupante il contrario), la cui formazione sarebbe delegata a un «Director of Rugby per il settore Seniores», non meglio identificato, e a «Olivier Magne, con la consulenza attiva di Pierre Villepreux, come Director of Rugby per il settore Junior». Poggiali inquadra i Comitati regionali in otto Aree geografiche, cui sono delegate le attività formative dei tecnici, in concerto con i Comitati stessi (ma come funzionano questi rapporti?), attraverso l’intervento di tecnici e preparatori atletici regionali. Anche Innocenti si riferisce al lavoro dei tecnici regionali, da stabilizzare, ma senza la complicazione delle Aree geografiche. Niente di nuovo sul fronte occidentale (e nemmeno su quello orientale): tecnici regionali e responsabili tecnici nazionali esistono già. Nessun programma indica, però, quante risorse vadano investite nella formazione dei tecnici regionali e di club; quanti tecnici e preparatori regionali a tempo pieno si vuole selezionare, formare e stabilizzare (e come); se sono previsti aiuti economici per la professionalizzazione dei tecnici di club o solo per eventuali rimborsi spesa. Perché – intendiamoci – se smantelliamo il sistema delle accademie e deleghiamo in tutto o in parte la formazione di alto livello giovanile ai club, come sembrano indicare i programmi elettorali, allora non possiamo appoggiarci a tecnici volontari, che nella vita fanno altro e, per quanto capaci e volenterosi, alla sera pretendono di gestire professionalmente la formazione dei futuri campioni; né possiamo delegare questi processi a tecnici regionali professionisti che zampettano durante la settimana da un club all’altro. Ci vogliono tecnici a tempo pieno dentro i club: su questo punto, purtroppo, i programmi dei nostri candidati tacciono colpevolmente.
La professionalizzazione di almeno una parte dei tecnici di club annuncia un altro capitolo importante, toccato da due candidati. Il rugby italiano è ufficialmente ancora dilettantistico, nonostante le contraddizioni un po’ ipocrite e ambigue delle franchigie celtiche e di qualche club di Top 10. Il professionismo nel rugby mondiale è stato ammesso solo dal 1995, ma la FIR non lo ha mai considerato, preferendo un dilettantismo che si è dimostrato largamente inadeguato a confrontarsi con l’alto livello internazionale. Forse è il caso di prenderne atto. I programmi di De Anna e Innocenti sembrano annunciare questa transizione verso il professionismo, anche se non sono chiare le procedure e le tempistiche che dovrebbero sostenere tale importante cambiamento, né è chiara la linea di demarcazione fra il rugby professionalizzato e quello ancora dilettantistico. Poggiali semplicemente non ne parla. La prospettiva più interessante potrebbe suggerire un passaggio graduale dall’esperienza del PRO14 (dove ci sono due franchigie italiane) a un campionato domestico professionistico di 6 e poi 8 squadre, soprattutto a beneficio della nazionale: è una prospettiva fattibile in un paese di 60 milioni di abitanti (un po’ più dell’Inghilterra, un po’ meno della Francia), ma impossibile da progettare se i candidati alla presidenza nemmeno ipotizzano di sfruttare il potenziale demografico del paese per allargare la base del movimento e, quindi, sfornare più talenti per alimentare l’alto livello professionistico domestico, oltre a incrementare il giro d’affari del nostro sport.
Quasi in conclusione, il tema più importante: la formazione dei nostri dirigenti, federali e di club. Negli ultimi anni i vertici federali sono stati oggetto di critiche più che giustificate, tuttavia provenienti da esponenti di club che non hanno sempre brillato per acume e capacità manageriali. Una buona programmazione delle attività di volontariato ha permesso a società come Capitolina e Valsugana di brillare a lungo, soprattutto a livello giovanile, ma con limiti ben precisi, imposti dal rifiuto o dal timore di professionalizzare una parte delle proprie attività, con qualche contraccolpo. Altri club – penso a Colorno e Parabiago – hanno intrapreso interessanti percorsi di crescita che hanno saputo integrare bene professionismo e volontariato. Una svolta di tipo professionistico è stata impressa con molta decisione dalla dirigenza del Verona Rugby, che però è un modello sui generis, sicuramente di successo, ma difficile da replicare e di cui andrà valutata la sostenibilità sul lungo periodo. Nel tempo ho osservato le buone scelte manageriali intraprese da club come Jesi e, mi dicono, Biella, anche se conosco poco quest’ultimo caso. Certamente si possono aggiungere altri esempi virtuosi con cui non ho familiarità e me ne scuso, ma il rugby italiano è scandito pure da molte (troppe) storie di fallimenti, buchi finanziari, settori giovanili devastati, investimenti maldestri, a volte semplicemente inerzia, incapacità o bieco conservatorismo. Escludendo l’annus horribilis 2020, quanti club negli ultimi 5-10 anni hanno migliorato significativamente il proprio budget, il numero di praticanti e volontari, numero e competenze di tecnici e preparatori atletici, infrastrutture e attrezzature a disposizione, senza aspettare Babbo Natale? Anche qui, soprattutto qui, c’è bisogno di professionalità e la professionalità si paga perché alla fine ripaga. Altrimenti andremo avanti con impiegati e statali che alla sera si improvvisano manager di club per elemosinare sponsor da 500 o 1.000 euro. Su questo punto Poggiali e De Anna si limitano ad evocare generici corsi di formazione per dirigenti e solo Innocenti si spinge un po’ oltre, dicendo che «sarà elevata l’attenzione nello sviluppo dei Club, il loro miglioramento sportivo, economico e finanziario anche attraverso la formazione di figure professionali inserite nel loro organigramma», sebbene quel “professionali” non sia sinonimo di professionismo, né trova quantificazioni o declinazioni di alcun tipo. In fin dei conti, perché stupirsi di una così scarsa attenzione per la professionalizzazione delle competenze manageriali nei club da parte di candidati che producono programmi elettorali per nulla professionali e puntuali? Certo, quanto meno si esprimono tutti e tre a favore di maggiori professionalità all’interno dell’amministrazione federale: De Anna scrive di «modalità di gestione sempre più mutuate dal settore profit»; Poggiali utilizzala termini come “professionale”, “professionismo”, “professionalità” una sola volta in 25 pagine, riferendosi al «consolidamento e aumento da parte della Federazione della propria struttura professionale interna dedicata all’impiantistica sportiva»; Innocenti discute la governance federale parlando di «Area manager […] selezionati sulla base di competenze ed esperienze professionali» e di «specifiche attività e programmi formativi, per accrescere competenze e conoscenze del personale». Tutto qui.
Per il resto il professionismo annunciato da De Anna e Innocenti sembra riguardare solo l’area tecnica dei club (giocatori e staff), non quella manageriale. E invece bisognerebbe partire proprio dai dirigenti, perché le decisioni strategiche per l’evoluzione di un club e il conseguimento delle risorse vengono prese fuori dal campo, non dentro (e il pesce puzza sempre dalla testa…). Di sicuro, poi, il professionismo dirigenziale nelle società sportive non penalizza il volontariato, che ne trarrebbe solo vantaggi, né significa piazzare qua e là qualche figura professionalizzata, bensì incidere radicalmente negli organi e nelle abitudini di governo dei club italiani, dove nepotismi, corporativismi e logiche feudali resistono strenuamente, dove in alcuni casi presidenti e consiglieri sono lì da prima che abbattessero il muro di Berlino, dove non hanno ancora capito che lo spirito “pane & salame” va bene per il terzo tempo, ma non per i primi due e soprattutto per quello che succede prima di scendere in campo. È da qui che dovrebbe ripartire il rugby italiano per crescere. Club, imparate dalla politica Netflix: «if you pay peanuts, you get monkeys», almeno per i ruoli di maggiore responsabilità, in campo e soprattutto fuori dal campo.
Un ultimo appunto sui nostri programmi, che sembrano accontentarsi dell’esistente e proprio non ne vogliono sapere di affrontano un tema spinoso: come migliorare il budget federale. Alcuni dati: nel 2019 la federazione inglese ha registrato ricavi per 241 milioni di euro, 102,6 quella gallese, 102,5 quella francese, 87,5 quella irlandese, 69,3 quella scozzese, 44,4 quella italiana. Nel 2000 la FIR incassava 10 volte di meno; dal 2010 al 2019 ha portato a casa 425 milioni di euro, il 43% provenienti dal 6 Nazioni e relativo indotto. Sono cifre che, benché minori rispetto agli altri soci del 6 Nazionali, proiettano la FIR al 4° posto per fatturato fra le federazioni sportive italiane, ma al 16° posto per numero di tesserati, dietro alle bocce, alla danza, agli sport equestri e al golf. Quarti per fatturato, sedicesimi per tesserati (forse più indietro se consideriamo solo i praticanti): è proprio strano, non vi pare? A me sembra una contraddizione macroscopica e mi aspetto che i candidati alla presidenza ne parlino, impossibile evitare una questione così rilevante. Invece no, nessuno ne parla e alla fine non cambierà nulla. Nella migliore delle ipotesi il rugby italiano continuerà a vivacchiare.
PS
Il sottoscritto, regolarmente tesserato con la FIR per la s.s. 2020/2021 come tecnico, non vota alle elezioni federali e non si candida ad alcuna carica. Le presenti riflessioni sono pubblicate a titolo personale, senza secondi fini, a beneficio di chi intende interrogarsi sullo stato di salute e le prospettive del movimento rugbistico italiano. Chi volesse ricevere il mio testo in formato PDF non deve far altro che chiedermelo in pvt.