Re: Tempo da cambiare
Inviato: 21 feb 2009, 12:39
da carlo76
Salve a tutti, scusate se in questo intervento mi dilungherò, ma ritengo che, per giudicare lo stato attuale del rugby italiano e prima di esprimere valutazioni su coloro che al momento ne sono alla guida, sia necessario ripercorrere un po’ di storia del nostro movimento ovale.
Anni ‘80: il rugby in Italia era, come nei precedenti decenni, uno sport per pochi, praticato prevalentemente in Veneto ed in qualche altra “isola felice” in Lombardia, Emilia, Abruzzo, Lazio e Sicilia.
Le società che, vuoi perché composte da tanti appassionati che ogni anno devolvevano denaro al rugby, vuoi perché con alle spalle uno sponsor affezionato a questo sport e disposto a “perderci” (perché di questo si tratta, infatti in Italia nessuno sport, tranne per un certo lasso di tempo il mondo dei motori, grazie alle sovrafatturazioni, ha mai consentito di recuperare, in termini di ritorni pubblicitari, le uscite per sponsorizzazione), le società dicevo, che avevano risorse importanti da investire sui giovani erano poche, essenzialmente Treviso, Padova e Rovigo. Principalmente in queste città, ma talvolta anche in qualche centro rugbysticamente meno famoso, spesso approdavano grandi campioni dell’Emisfero Australe, sia perché potevano giocare da noi mantenendosi allenati per il loro campionato che era a stagioni invertite, sia perché l’Italia con la sua storia, i suoi cibi e le sue splendide ragazze era senz’altro un buon posto ove venire gratuitamente (e magari con qualche rimorso) a passare qualche mese.
Tutte le altre piazze si arrabattavano come potevano, con tante persone che nelle piccole società sportive svolgevano una sorta di volontariato, alcuni professori di educazione fisica a scuola appassionati di rugby, e i padri che avevano giocato che cercavano di instradare i figli allo stesso sport.
Parlo di queste cose a ragion veduta essendo cresciuto rugbysticamente proprio in una di queste società, in quegli anni, dall’under 13 fino alla prima squadra. I problemi erano la disponibilità di campi (carenti o assenti e quando esistevano duri o fangosi, comunque mai erbosi), la caldaia delle docce quasi sempre rotta, la cronica mancanza di fondi per trasferte, mute di maglie, palloni etc.
Poi c’era qualche mosca bianca, come Catania o l’Aquila, dove le rispettive Regioni, con denaro pubblico, sostenevano anche questo sport, donando, magari anche poco, ma pur sempre molto rispetto a tutti gli altri che non ricevevano nulla.
Infine c’era la federazione con sede a Roma, che sotto la gestione Mondelli, decuplicò il numero dei propri impiegati, senza che vi fosse stato un incremento nemmeno paragonabile nel numero dei tesserati. D’altra parte erano gli anni della “Milano da bere” e della “Roma da mangiare”.
Nei primi anni ’90 fu il Milan che, insieme alle altre società sportive del polo milanese facente capo a Berlusconi, dovette rapidamente crescere ed ottenere risultati per realizzare gli obiettivi pubblicitari legati allo sviluppo del gruppo Mediolanum. La crescita rapida poteva essere ottenuta soltanto abbandonando le consuetudini ormai radicate nel mondo ovale italiano di regalare qualche muta di maglie alla squadra che ti cedeva il cartellino di un buon giocatore, pagare ad un paio di stranieri l’affitto dell’appartamento, un’auto e trovando loro un “lavoretto” che gli consentisse di essere molto spesso sul campo da gioco, per dedicarsi invece al pagamento di ingaggi veri e propri, anticipando se vogliamo di qualche anno il professionismo, che l’International Board cominciò a prendere in considerazione con la decisione di indire la prima coppa del mondo nel 1987, e formalizzò definitivamente dopo la terza coppa, a fine 1995.
Quel proto-professionismo sconvolse le realtà rugbystiche italiane che, in un quinquennio, passarono dall’aver bisogno, per un campionato di serie A, di circa 200 milioni di lire annui, a non riuscire a garantirsi la permanenza in prima divisione con più del triplo di quella cifra. Quando, anni dopo, l’esperienza Milan dei campioni, con la stessa rapidità con cui si era formata, si dissolse, era ormai l’era del professionismo vero e proprio e delle scelte strategiche da compiere per il movimento rugbystico italiano.
Fu infatti proprio in quegli anni che il Coni cominciò ad incrementare considerevolmente i soldi dati annualmente alla FIR.
A quel punto la Federazione cominciò a chiedersi come e dove investire il denaro rimasto (dopo aver pagato gli stipendi ai propri storici e nuovi funzionari). Al ’96 risale anche l’elezione del Presidente Dondi, persona rispettabile e certamente più trasparente di chi l’aveva preceduto, ma senza dubbio non, per indole e formazione, proiettato al futuro del rugby inteso come business. Basti pensare infatti che, almeno al tempo dell’elezione, il nuovo Presidente non conosceva una parola di inglese, lingua nella quale, se non altro fino al recente avvento di Lapasset a capo dell’International Board, sono sempre state stabilite tutte le numerose strategie e modifiche concernenti l’assetto del rugby mondiale. E l’Italia, nella sua storia unitaria, ha appreso bene, e a volte a caro prezzo, che, con l’interprete, non si può mai essere protagonisti in alcun consesso!
Il ragionamento della Federazione a fine anni ’90 fu semplice: per crescere in una realtà professionistica abbiamo davanti due strade; una è lunga, faticosa e non dà risultati immediatamente, ma solo nel medio-lungo termine: consiste nel privilegiare (con incentivi e detrazioni legate ai nuovi tesserati) le società che ogni anno portano più bambini a giocare, nel mettere sotto contratto alcune centinaia di insegnanti ISEF affinché facciano dappprima loro stessi corsi di rugby e poi lo insegnino ai ragazzi, nel pagare trasferte di arbitri italiani all’estero per corsi di aggiornamento, nel cercare accordi con le Regioni, le Province ed i Comuni perché dedichino strutture esistenti al rugby o ne costruiscano di nuove, nel modificare i regolamenti affinché in campo vadano per la maggioranza ragazzi provenienti dal vivaio etc… Questa strada evidentemente non fu seguita, perché richiede di investire molto per 10-15 anni, scontentare inizialmente tutti gli impazienti del “tutto subito” e far godere dei risultati i tuoi successori, cosa che nessun “politico”, sottoposto a periodiche elezioni, desidera mai fare.
La seconda strada era più semplice e dai risultati più rapidi, ma ahimè non duraturi: tesserare in fretta e furia un po’ di buoni giocatori cresciuti rugbysticamente in realtà tecnicamente più evolute della nostra per creare una Nazionale competitiva grazie a qualche parente (fino al terzo grado) di origine italiana, certi dell’equazione: “Nazionale vincente + sfruttamento mediatico dei sani valori del rugby = più attenzione degli organi di informazione = più gente che si avvicina al rugby = il movimento cresce in fretta e domani si autoalimenterà”.
Tutto vero tranne l’ultimo punto, perché il pubblico e l’interesse creato da un movimento che cresce sulle basi descritte nella prima soluzione è indipendente dai risultati, in quanto segue una passione che conosce, perché ha giocato e/o ha amici/parenti che hanno giocato e/o è più o meno direttamente coinvolto in attività delle società di rugby; mentre il pubblico creato con la seconda soluzione è volubile in funzione dei risultati e, nel momento in cui le forze economiche a disposizione non consentono di mettere in campo una squadra che possa stare almeno vicino al livello degli avversari, quello stesso pubblico tende a disaffezionarsi rapidamente.
Comunque così si fece: si selezionarono dapprima tecnici di valore come Fourcade e Coste; si incontrò (quasi per caso nella squadra Argentina dei mondiali universitari del ’90 a Treviso) un giovane campione nato e cresciuto rugbysticamente fra i Pumas, ma provvidenzialmente dotato di mamma Italiana, come Diego Dominguez, al quale progressivamente affiancare altri oriundi di buon livello come Gardner, Giacheri e Pértile; si selezionò un ristretto ma capace gruppo di italiani che potevano giocare ad alto livello (i fratelli Cuttitta, ad esempio, italianissimi ma cresciuti rugbysticamente in SudAfrica, il gigantesco Properzi, il forte Vaccari o l’indimenticato Ivan Francescato al principio grandissimo mediano di mischia che fece da trait d’union fra Casellato e Troncon, arricchendo la nostra lunga tradizione in un ruolo che i giocatori italiani hanno sempre apprezzato).
Con quel gruppo si ottennero risultati giudicabili alternativamente ottimi (se si conosce la fatica che il rugby richiede per progredire anche solo di poco, l’atteggiamento di superiorità che gli anglo-francesi ci dimostravano sempre, dai titoli sui giornali agli arbitraggi, e se si considera che avevamo sempre gli uomini contati) o solo discreti (se si guardano semplicemente le statistiche relative ai tabellini delle singole partite).
Ma quei risultati non bastavano per realizzare i sogni di gloria di chi sapeva che per contare qualcosa bisognava essere accettati nel “5 Nazioni”, trasformandolo in 6!
D’altro canto era necessario anche consentire di crescere alle squadre del campionato, non solo i loro costi, ma anche i livello di gioco, e per farlo, ancora una volta, si scelse la strada veloce: consentire a tutti di riempirsi di oriundi più o meno legati all’Italia da vincoli di sangue.
Le susseguenti crisi economiche in Argentina portarono a questo paradosso: era più economico, e consentiva di mettere in campo maggior tecnica e forza, schierare 4/5 della squadra composta da argentini piuttosto che far crescere giocatori del vivaio che poi, per potersi allenare come facevano gli oriundi e contendere loro il posto in squadra, avrebbero avuto necessità di rimborsi spese molto più elevati, perché avrebbero dovuto compensare un mancato lavoro in Italia, non un mancato lavoro in Argentina. Insomma, con gli stessi soldi si prendevano giocatori migliori che erano dei professionisti (nel senso che non svolgevano altre attività) e li si rendeva anche contenti, visto che la vita nel loro paese avrebbe offerto loro molto meno.
Peccato però che così facendo si disincentivavano i giovani italiani che, arrivati alle porte della prima squadra avevano nella maggior parte dei casi, come migliore prospettiva, una lunga serie di panchine ad attenderli.
A ciò si aggiunga che praticamente mai l’aver creato cospicui gruppi di stranieri che si frequentano quasi esclusivamente fra loro all’interno degli spogliatoi è stato foriero di rapporti distesi col resto della squadra, con l’allenatore e con le società, più spesso questo comportamento ha contribuito a creare contrasti di vario genere, tradizionalmente tipici di altri contesti sportivi.
Infine, gli oriundi hanno raramente rappresentato fonte di ispirazione per le giovani leve, prestandosi ad esempio ad assistere con continuità sul campo i bambini e i ragazzini, così come accadeva, e continua ad accadere, per le “bandiere” o “vecchie glorie” che dir si voglia, che hanno passato tutta la loro carriera sportiva con la stessa squadra; oltretutto raramente il pubblico è aumentato nelle partite di campionato, in quanto non è facile sentire come propria, e tifare incondizionatamente, una squadra composta per 12/15esimi da giocatori che nemmeno parlano la tua lingua.
E qui si assiste al secondo paradosso derivante dalla strada intrapresa e cioè: mentre la Nazionale attirava negli stadi un numero crescente di spettatori per le proprie partite, ed alcune squadre di club italiane cominciavano (anche se il più delle volte con scarsi risultati, ma non sempre) a competere con quelle europee più blasonate, e quindi tutto avrebbe fatto presupporre che l’interesse per il rugby sarebbe uniformemente cresciuto… il numero di spettatori alle partite del nostro campionato nazionale diminuiva vistosamente (salvo alcune lodevoli eccezioni, ma, proprio perché eccezioni, da non poter prendere come riferimento).
Ricordo a questo proposito una finale scudetto Rovigo–Treviso a Bologna nel 1989 con oltre 15.000 paganti, mentre l’anno scorso la Liga Italiana Rugby di Eccellenza si compiaceva del fatto di aver venduto quasi 12.000 biglietti per la finale di Monza.
Tornando alla Nazionale, diciamo che, dopo la triste parentesi del mondiale ’99, al quale arrivammo con l’allenatore Coste dimissionario (che comunque si recò nello spogliatoio prima del match con l’Inghilterra, contribuendo ad alimentare, se ancor ve ne fosse stato bisogno, la confusione dei ragazzi affidati ad interim a Mascioletti) in seguito alla malaugurata idea, sentendoci evidentemente ormai “grandi” e quindi facendo il passo più lungo della gamba, di sfidare gli Springboks a casa loro, rimediando così 100 punti; raggiungemmo finalmente nel 2000 l’ambito traguardo di partecipazione al “6 Nazioni”, per affrontare il quale ci affidammo a Brad Johnstone, che alla coppa del mondo di quell’anno aveva convinto, trasformando la tradizionalmente indisciplinata mischia delle Fiji in un pacchetto solido che, insieme alle solite individualità dei trequarti, portò la squadra nelle prime 8.
Infatti la mischia italica, con lavoro e disciplina, migliorò sensibilmente e, con alle spalle la coppia Troncon-Dominguez, ci fece battere la Scozia nel nostro primo match nel “6 Nazioni”.
Peccato però che non si fosse considerato il fatto che le Fiji sono una “fabbrica” di talentuosi trequarti, l’Italia ahimè non altrettanto! Per cui dopo alcuni anni in cui la mischia esprimeva già il proprio massimo, mentre il gioco con le linee arretrate latitava, si esonerò Johnstone per passare a Kirwan, campione indiscusso sul campo, ma con poca esperienza da coach. Qualche buon risultato iniziale, un mondiale più che discreto con qualificazione teoricamente possibile (ma praticamente senz’aver mai impensierito il Galles), un’altra infornata di giocatori naturalizzati (anche per meriti nuziali), questa volta a cercare di rimpinguare i ranghi dei trequarti, e nel complesso pochi progressi.
Allora si disse: gli allenatori neozelandesi non fanno per noi, ci vuole un carattere più simile a quello italiano, qualcuno che tiri fuori il meglio dal “disordine” latino. E voilà Messier Berbizier, che peraltro aveva portato la Francia nel 1995 in Sud Africa vicino alla clamorosa eliminazione dei padroni di casa in semifinale sotto una pioggia torrenziale. Il grande mediano di mischia dei grand slam Francesi al “5 Nazioni” degli anni ’80 ci ha portati a 2 vittorie nello stesso anno e ad un passo dalla qualificazione agli ottavi nel mondiale d’oltralpe; peccato per le dimissioni annunciate prima dell’inizio della coppa del mondo (che non hanno fatto onore ad un uomo col suo passato) e peccato soprattutto per il gioco mostrato nel corso della coppa, di una pochezza esasperante culminata nel “non-gioco” di Sant-Etienne (ebbene sì, ero uno fra i più di 12.000 sfortunati italiani che si sono recati nell’ex città-dormitorio per assistere al deprimente spettacolo!)
E veniamo a Nick Mallet che, nel 1998, portò in tournée uno strepitoso Sud Africa (con il quale detiene il record di17 vittorie consecutive) giocando molto meglio di quanto non facesse la squadra che 3 anni prima era diventata campione del mondo e battendo dapprima l’Italia (a Bologna fu un gran bell’incontro in cui l’Italia segnò 31 punti e restò in partita fin quasi al 20’ del secondo tempo, peccato che alla fine i punti subiti furono 62), poi la Francia (cui rifilò 50 punti) e tutte le squadre britanniche incontrate, e terminando in Argentina con un’altra sonora vittoria.
Lo stesso Mallet perse per un drop ai supplementari lo “spareggio” mondiale del 1999 in semifinale con gli All Blacks, facendo giocare la sua squadra, nel complesso dell’intera partita, forse meglio degli avversari, pur non potendo schierare per tutto il torneo, causa infortunio, l’apertura titolare (il fuoriclasse Honiball), che in coppia con Van Der Westhuizen, contendeva agli australiani Greegan-Larkam la palma di migliore mediana del mondo. Questo per dire che, se si eccettua John Kirwan, tutti i selezionatori avuti dalla Nazionale sono stati allenatori con un curriculum di esperienze in panchina di tutto rispetto.
Allora perché oggi ci lamentiamo della pochezza di gioco e dei deludenti risultati?
Perché, come è proprio dell’indole umana, da un lato tendiamo a dimenticare il passato (in cui si ritrovano invece tutte le cause degli attuali pregi e difetti del nostro movimento), e dall’altro un po’ci sopravvalutiamo.
Infatti non possono essere sufficienti 12 validi italiani (considerando anche quelli che in realtà sono di formazione chiaramente estera, indipendentemente da come li considerino le attuali norme sull’eleggibilità, altrimenti dovrei dire “5 o 6 validi italiani”) che giocano con continuità all’estero in campionati di livello, per poter anche solo pensare di competere, con continuità, alla pari con un’Irlanda che, con le sue provincie rugbystiche, può esprimere circa 30-35 giocatori di qualità internazionale.
Al di là quindi degli esperimenti infelici di Mallet (Marco Bergamasco n° 9 i cambi di posizione del finale di partita con l’Irlanda lo sono stati sicuramente) e dei “non progressi” nel gioco alla mano che Cariat aveva il
compito di migliorare (ma non l’ha svolto) il problema essenziale è proprio la “materia prima” disponibile.
Senza esperimenti, disputando, come è stato per gran parte del match, un buona partita in difesa, e segnando tutti i calci di punizione avuti, l’Italia di oggi poteva perdere 25 a 12; divario che suona meglio è vero, comunque abbondantemente oltre il break.
Solo per fare un esempio di scarsità di “materia prima” disponibile, guardiamo al n° 10 (ruolo in cui, nel nostro campionato di eccellenza, trovano posto quasi solo stranieri): Andrea Marcato è senz’altro un buon giocatore, con senso della posizione in campo, una più che discreta tecnica di calcio e una buona dose di coraggio (che si palesa anche da come prende gli “up and under” al volo), ma se lo confrontiamo con Flood, O’Gara, Hook o Beauxis appare evidente che questi siano fisicamente molto più dotati, e non sto parlando delle masse muscolari che si incrementano in palestra o spesso anche illecitamente con aiuti chimici, ma proprio della costituzione fisica, dono di Madre Natura. Qualcuno potrebbe ribattere che Diego Dominguez è stato un mediano “scricciolo” in confronto alle aperture di oggi; è vero, ma innanzi tutto era un’eccezione fenomenale che non si può prendere ad esempio per gli altri, e in secondo luogo in 10 anni lo sviluppo fisico legato al rugby è stato spaventoso, basti pensare che al mondiale del 1995 le squadre con il pacchetto di mischia più pesante erano le W.Samoa ed il Sud Africa con 860 kg circa, mentre all’ultima coppa del mondo abbiamo visto schierare mischie di 996 kg!
Sfortunatamente, perché l’Italia potesse avere oggi le seconde linee di 208 cm che prendono più facilmente le touches e i trequarti di 95 kg che facciano i 100 m in 10.5” avremmo avuto bisogno che 15 anni fa si fosse incominciato a fare metodicamente quel lavoro nelle scuole, cui accennavo prima, che avrebbe consentito di “strappare” ad altri sport, come il basket, il nuoto o l’atletica, tanti giovani fisicamente dotati.
E’ frequente infatti scoprire, prima dei test match, quando vengono presentati i forti giocatori britannici che giocano nelle rispettive nazionali, che parecchi di loro, in età adolescenziale, hanno ottenuto buoni risultati in altri sport; evidentemente, se alla fine hanno preferito il rugby, vuol dire che il contesto in cui questo è stato proposto loro era migliore delle alternative: campi e strutture adeguate, squadre ben organizzate, e perché no, la possibilità di guadagnare di più. Senza questi elementi, che si costruiscono con un lungo lavoro oscuro sul territorio, il nostro movimento non potrà mai esprimere di meglio.
Oggi si parla della candidatura per la Coppa del Mondo del 2015 o 2019, dimostrando evidentemente di perseverare nell’idea secondo cui “il movimento continuerà a crescere in quanto trainato dall’alto” anziché “spinto dal basso”.
Non nego che per noi italiani sarebbe una bellissima esperienza vivere un mondiale in casa, ma crediamo veramente che vi sia una seppur minima possibilità che l’International Board prenda in considerazione seriamente la nostra candidatura senza che l’Italia possa garantire, come ha fatto la Francia (come ho potuto constatare passandoci 3 settimane in occasione del mondiale 2007) un insieme di: stadi pieni, copertura televisiva in tutti gli stadi con lo stesso numero di telecamere che normalmente vengono usate nel calcio, efficiente rete logistica di trasporti da e per gli stadi, intere catene alberghiere, agenzie turistiche, compagnie aeree convenzionate con l’organizzazione dell’evento etc. etc. Credo che sia molto più probabile che il primo mondiale che verrà affidato ad un paese rugbysticamente non eccelso possa tenersi in Giappone, dove investimenti ed organizzazione non hanno mai difettato ( e dove peraltro ci sono circa 120.000 tesserati, contro i nostri 60.000).
Allora come poter crescere davvero? Ahinoi anche in questo caso la strada sarebbe dura ed in salita, perché prevederebbe non solo molto impegno fin da subito, per vedere i primi risultati dopo anni, ma anche “obbligare” molti addetti ai lavori a ridimensionare notevolmente i propri campanilismi, tipici italiani, prendendo finalmente contatto con la realtà reale, non con quella desiderata. Pertanto, molto probabilmente, questa strada non sarà percorsa, o lo sarà solo parzialmente, non ottenendo così i benefici sperati.
Ecco una modesta proposta su cosa si potrebbe fare:
creare 4 consorzi/franchigie/superclub chiamiamoli come preferiamo:
2 Veneti (ad esempio Treviso+Venezia+Udine+San Donà+San Marco+Mirano+Casale e Padova+Rovigo+Verona)
1 Lombardo-Emiliano (Viadana+Calvisano+Parma+Gran+Brescia+Noceto+Colorno+Modena+Reggio)
e 1 Centro-meridionale (Roma+Capitolina+Aquila+Firenze+Livorno+Catania/San Gregorio+Alghero)
che, mettendo insieme sponsor e strutture creino squadre in grado di partecipare ad una competizione internazionale, che attragga TV e spettatori per lo spettacolo che offre, e nella quale talvolta sia possibile anche togliersi qualche soddisfazione sul campo; si chiami questa “Celtic League” o “Heineken Cup” o anche “Challenge Cup”, tanto, rispetto al “Super 10”, c’è sempre e solo da guadagnare in termini di intensità media di gioco. A chi dicesse che non è scontato che queste coppe accettino 4 franchigie italiane, rispondo che, in un’era di professionismo, si viene accettati o meno in base alle garanzie offerte in termini di: sponsor, impianti, copertura televisiva e denaro da ripartire con gli altri partecipanti. E nel panorama italiano solo realtà consorziate come nell’esempio fatto sopra, sarebbero in grado di offrire queste garanzie.
Parallelamente le singole squadre che “investono” i migliori giocatori in questa competizione dovrebbero ricevere dalla Federazione dei cospicui gettoni di presenza per ogni partecipante a ciascuna partita, sia di Coppa sia di Nazionale, ed anche un’assicurazione che ripaghi le squadre in caso di infortunio dei giocatori stessi durante i suddetti impegni.
Le squadre dovrebbero quindi essere obbligate ad investire questi denari nella creazione di nuove leve giovanili che a questo punto avrebbero la prospettiva, crescendo di livello, di poter guadagnare praticando lo sport che amano e restando vicini all’ambiente in cui sono cresciuti.
Tutti i ragazzi provenienti dai vivai delle singole squadre “consorziate” dovrebbero naturalmente continuare a partecipare agli specifici campionati giovanili con il proprio club originario (aiutati anche in questo caso dalla Federazione, che dovrebbe investire risorse per organizzare soggiorni all’estero di ragazzi italiani e soggiorni in Italia di squadre giovanili Britanniche o Francesi); e coloro che, al termine delle giovanili, volessero continuare l’attività in maniera non professionale (per scelta o per mancanza di mezzi fisico-tecnici per poter ambire a giocare in Coppa), darebbero vita ad un Campionato Nazionale strutturato con piccoli gironi regionali (ad esempio di 4 squadre ciascuno) con formula all’italiana (partite di andata e ritorno) e sbarramenti successivi in altri gironcini per salire e scendere di categoria, fino ad arrivare alla disputa del titolo di Campioni di Italia “Amateurs”.
Naturalmente in queste squadre che disputerebbero il Campionato Nazionale “Amateurs” dovrebbe essere necessario schierare almeno 12/15esimi di giocatori provenienti dalle fila delle giovanili, 2 potrebbero venire da fuori (ma tutti e 14 dovrebbero essere nati in Italia e cresciuti rugbysticamente nel nostro paese) mentre 1 potrebbe essere un vero e proprio straniero proveniente da qualsiasi paese nel mondo.
Questa struttura, facendo risparmiare le società con meno mezzi a disposizione (in quanto le trasferte costose sarebbero poche, e solo alla fine del campionato per quelle 8 squadre che arrivassero a lottare per lo scudetto) e, nello stesso tempo, conservando la sana competizione legata alle logiche di promozioni/retrocessioni/conquista del titolo di categoria, garantirebbe una costante affluenza al movimento rugbystico italiano e senza dubbio anche un incremento di pubblico, in quanto gli appassionati sarebbero ben felici di farsi alcune decine di km una volta al mese per vedere la squadra del superclub della propria zona in un grande match contro altri forti europei, ma sarebbero anche ugualmente contenti di andare ogni settimana vicino a casa a seguire la squadra della propria città/paese, composta prevalentemente da ragazzi usciti dal vivaio locale.
E’ evidente che una proposta di questo tipo prevederebbe: la creazione di una separazione netta a livello italiano fra rugby amatoriale e professionistico; che per parecchi anni circa l’80% del denaro utilizzabile da parte della Federazione, anziché convergere verso manifestazioni pubblicitarie estemporanee, vada alle società che fanno leva e venga investito in educatori/corsi/scambi e nelle infrastrutture per il rugby; ma soprattutto presupporrebbe l’abbattimento di vecchie barriere ideologiche “settarie” che impediscono di vedere le altre squadre ed i loro staff come possibili partners e non solo come vicini invidiosi.
Credo davvero che senza una “rivoluzione” di questo tipo, il destino del rugby italiano sia, se ci va bene, di stagnazione, altrimenti, più probabilmente, di declino. Grazie a tutti coloro che avranno dimostrato sufficiente pazienza ed attenzione per leggere questo scritto fino in fondo.