
La cappella sorge a Larrivière, piccolo villaggio dell’Aquitania
Negli affreschi le scene di gioco si mischiano alle icone sacre
Il rugby come religione. Anche se la Gran Bretagna, pregna di solida tradizione ovale, è ben lontana, dall'altra parte della Manica. E se il resto del pianeta che ama specchiarsi in un pallone oblungo è nell'altro emisfero, quello meridionale, all'estrema propaggine del Continente Nero (il Sudafrica dei mitici Springboks) e a ben altre latitudini, laddove scorrazzano leggende viventi quali All Blacks neozelandesi e Wallabies australiani.
Ma provate a tracciare una linea immaginaria che dalla Bordeaux immersa nei suoi vigneti va fino alla Marsiglia del trafficato porto e degli illeciti affari, e poi un'altra che parte dalla catena dei Pirenei e arriva fino alla costa atlantica battuta dai venti che solleticano la verve dei surfisti. Un perimetro sghembo, geometricamente imperfetto. La cui area è conosciuta come Ovalie, autentica culla del rugby transalpino.
E' la Francia del profondo sud-ovest, a cavallo tra Guascogna e Linguadoca, dove il Paese della «grandeur» assume i caratteristici connotati dei Paesi Baschi e della Catalogna, i cui idiomi si alternano attraversandola in direzione Est. E' la terra della palla ovale, dove il rugby è tutto, cuore prima che portafogli (come invece accade nella Parigi dello Stade Français, esempio vincente di esasperato professionismo), una passione che mai tramonta, una vera e propria ragione di vita. Perfino religione, nel vero senso della parola.
Larrivière è un piccolo centro, circa 600 anime, abitante più, abitante meno, appollaiato nella valle del fiume Adour, lungo il confine della grande foresta delle Landes, appena a Sud di Mont-de-Marsan. Un minuscolo villaggio contadino, divenuto però la mecca di chiunque non sappia rinunciare a mischie e touche, mete e drop. Perché qui la palla ovale ha il suo piccolo tempio, un'austera cappella in stile romanico, denominata, manco a dirlo, Notre Dame du Rugby. Semplice l'architettura, di tutt'altro tenore le decorazioni interne.
Bacheche colorate, gadget di ogni genere, con un comune denominatore: il rugby. Gli aficionados arrivano da mezzo mondo, lasciano i loro ricordi, sciarpe, magliette e quant'altro, preziose testimonianze del loro pellegrinaggio nel vero tempio del rugby mondiale.
Un tempio che deve la sua esistenza a padre Michel Devert, colui che nei primi Anni 60 si mise in testa di consacrare quella vecchia cappella (sede dell’antico oratorio di Saint-Savin, risalente all'XI secolo, poi ricostruita nel 1861) da anni in disuso. Una tragedia alla base della decisione, la morte in un incidente stradale di tre giovani giocatori del Dax (tra cui i famosi Jean Othats e Raymond Albaladejo), nel 1963. Padre Michel aveva sentito di un originale modo con cui erano stati commemorati 7 calciatori del Manchester United, periti nel tristemente famoso incidente aereo di Monaco di Baviera. Vi si ispirò, ma volle fare di più. Fu come se un'intera comunità si stringesse intorno al progetto. Si diedero da fare i rugbisti della zona (tra i fondatori figura Benoît Dauga, autentico miracolato, sopravvissuto a un pauroso incidente di gioco), finanziarono il progetto i club del luogo, fornì il suo supporto perfino il vescovo della vicina Dax, monsignor Bezac. Un lungo percorso di restauro, durato qualche anno. Fino al giugno del 1967, quando finalmente vide la luce Notre Dame du Rugby, una chiesa cattolica incredibilmente consacrata a una disciplina per anni invisa alle gerarchie religiose (nelle prime due decadi del XX secolo i cattolici si opposero alla pratica del rugby, considerato sport di peccatori). Per il gran giorno della consacrazione, padre Michel (che ha sempre celebrato messa in dialetto di Guascogna, indossando il caratteristico basco) scrisse una preghiera speciale, tra sacro (religione) e profano (rugby): «Vergine Maria, che hai insegnato a tuo figlio Gesù a giocare ai tuoi piedi,/guarda con occhio materno al gioco di questi ragazzi./Sii con noi nella grande mischia dell'esistenza,/così che non possiamo uscire vincitori dal grande gioco della vita,/dando un esempio - come sul campo - di coraggio, entusiasmo e spirito di gruppo,/nel tuo nome. Amen». Da quel giorno, è un pellegrinaggio continuo.
Decine di migliaia di persone ogni anno, soprattutto a tener viva la tradizione della visita del lunedì di Pentecoste, un must per ogni appassionato che si rispetti: arrivano da ogni angolo del pianeta, perfino da Argentina, Tahiti, Camerun. Ognuno lascia qualcosa, un piccolo ricordo, che poi fa bella mostra di sé nella multicolore bacheca dietro l'altare. Tutti appongono la loro firma sul grande libro che raccoglie pensieri e frasi dei visitatori. Che si fermano ad ammirare le splendide finestre, affrescate con disegni che rappresentano le varie fasi del gioco, mischiando le due religioni, cattolicesimo e rugby: una Vergine Maria che ha tra le sua braccia Gesù intento a lanciare l'ovale per una touche, una Madonna che domina la scena mentre ai suoi piedi si sta giocando una mischia, un Gesù che offre a Maria un pallone ovale.
Come un santuario, che non poteva non sorgere a Ovalie, laddove il rugby è incrollabile passione. Una culla per l'ovale, dove hanno visto la luce fior di campioni, d'altri tempi e del rugby contemporaneo, compresi alcuni protagonisti della prossima Coppa del Mondo (dal 7 settembre al 20 ottobre), veterani della Nazionale transalpina come Fabien Pelous, indifferentemente terza o seconda linea, Raphael Ibanez, un armadio di tallonatore.
La Francia padrona di casa ha un ostacolo al limite dell'insormontabile sulla strada che conduce al titolo: i mitici All Blacks neozelandesi. Ma ha un'arma in più: Notre Dame du Rugby. Dovesse farcela, il viaggio è garantito. Tutti a Ovalie, dove rugby e religione vanno a braccetto.