Re: I fischi? Alla Borghesiana qualcosa è cambiato
Inviato: 24 feb 2009, 11:59
Intendiamoci, nemmeno io sono contento delle nostre ultime prestazioni, del primo tempo contro l'Inghilterra e del secondo contro l'Irlanda. Non piace a nessuno avvertire il senso di impotenza che ha attanagliato un po' tutti gli spettatori allo stadio (e suppongo anche in TV) per buona parte dei secondi 40'. Lo staff ha sicuramente le sue colpe e non può essere esentato da critiche sacrosante. Io stesso ho tirato fuori il nome di Cariat in tempi non sospetti (quando c'era ancora Berbizier) per sottolineare la nostra povertà offensiva coi 3/4.
Tuttavia cercherei di analizzare queste dichiarazioni, piuttosto che respingerle a priori. Si tratta di persone che, a differenza nostra, vivono di rugby.
Vediamo un aspetto citato da Cariat: l'"intelligenza in campo". A dire il vero, è una dote che ci è sempre mancata, anche quando ce la stavamo giocando, anche quando fisicamente reggevamo l'impatto; riguarda anche la disciplina e il rispetto del piano di gioco, ma ha soprattutto a che fare con la conoscenza del regolamento e delle sue pieghe, con la pratica del campo, con la capacità di ragionare tatticamente e di adeguarsi alle situazioni contingenti, di fare la cosa giusta al momento giusto, senza affanni.
Un esempio: sulla seconda meta irlandese, nel forum si è criticato Griffen per il suo placcaggio. In verità c'è stato un grave errore tattico, quello di mettere a guardia del raggruppamento il mm. Non do la colpa a Griffen, che ha occupato una zona scoperta anche se era il meno adatto a coprirla, ma ai compagni (il più vicino era Zanni, dall'altro lato stava sopraggiungendo Ongaro, l'unico che si sia reso conto di quanto stava accadendo, ma ha fatto tardi) che, forse per fissare il dirimpettaio da marcare, non l'hanno avvicendato per tempo. Quando Ferris, il blindside irlandese (nemmeno uno di quelli più esperti), si è accorto della falla nel nostro assetto difensivo (eravamo alla 17ma fase, schemi saltati, poteva anche starci), si è fatto dare la palla ed è andato dritto sapendo che Griffen, 20-30kg meno pesante, poteva solo andargli alle gambe e che gli avrebbe lasciato le braccia libere per lo scarico, e così è stato. Ho reso l'idea di che cosa sia per me (e credo anche per Cariat) l'"intelligenza in campo"?
Perché ci manca, questa intelligenza? Perché alcuni dei nostri giocatori non vivono il rugby con la stessa "full immersion" degli altri. Bortolami ce l'ha, per esempio, è il suo valore aggiunto. Reato ancora no, altrimenti non scatterebbe in avanti sull'entrata di Wallace con Festuccia in ritardo (terza meta); e nemmeno Pratichetti, se va a sbattere contro l'unico compagno che aveva davanti anziché sfruttarlo come schermo.
Questo è forse colpa dello staff? O è il limite oggettivo che ancora non ci consente di competere ad armi pari? Sbagliano forse i tecnici a segnalarlo, seppure in forma talmente generica da risultare incomprensibili ai più?
Per quanto riguarda la teoria orlandiana dei 23/24 anni, hanno ragione Duccio a rimarcare il contrasto con il nostro passato ed Emy a sottolineare la differenza con gli altri Paesi, ma temo che tutti questi discorsi non siano incompatibili. Quasi tutti i nostri avanti hanno esordito da giovanissimi, ma a che prezzo? Saremmo disposti ad accettare le ripassate di qualche anno fa, quando i nostri esordivano?
E qual è il percorso formativo dei giovani rugbysti in Italia, soprattutto ma non solo di quelli pre-accademia? Quanto tempo e quante energie possono dedicare al rugby e quanto conviene che dedichino invece alla formazione? Secondo voi, Halfpenny (per dirne uno) è iscritto e frequenta l'università o un corso professionale, oppure il rugby è per lui un'attività professionale che lo impegna a tempo pieno?
Ricordo il caso di Cittadini che, pur fortissimo e promettentissimo, ha preferito giocare due anni in serie minori, con tutto ciò che questo comporta in termini di sganciamento con la realtà di vertice, pur di progredire negli studi; o quello di Mernone, che, pur essendo tra le terze linee più forti a livello giovanile, ha preferito la sicurezza di un impiego post-agonistico nelle Fiamme Oro alle lusinghe dello sport di vertice.
Senza un vero professionismo in Italia, cioè senza ingaggi e stipendi in linea con l'Europa che conta, nessun giovane con un po' di testa sceglierebbe a cuor leggero la carriera agonistica, tutti coloro che non sono certissimi del proprio talento sono costretti a cercare alternative e di conseguenza a condizionare, limitare, rallentare la propria formazione rugbystica. Il che obbliga i tecnici ad insegnare l'alto livello a chi milita "solo" nel campionato italiano. E non dovrebbero lamentarsene?
Tuttavia cercherei di analizzare queste dichiarazioni, piuttosto che respingerle a priori. Si tratta di persone che, a differenza nostra, vivono di rugby.
Vediamo un aspetto citato da Cariat: l'"intelligenza in campo". A dire il vero, è una dote che ci è sempre mancata, anche quando ce la stavamo giocando, anche quando fisicamente reggevamo l'impatto; riguarda anche la disciplina e il rispetto del piano di gioco, ma ha soprattutto a che fare con la conoscenza del regolamento e delle sue pieghe, con la pratica del campo, con la capacità di ragionare tatticamente e di adeguarsi alle situazioni contingenti, di fare la cosa giusta al momento giusto, senza affanni.
Un esempio: sulla seconda meta irlandese, nel forum si è criticato Griffen per il suo placcaggio. In verità c'è stato un grave errore tattico, quello di mettere a guardia del raggruppamento il mm. Non do la colpa a Griffen, che ha occupato una zona scoperta anche se era il meno adatto a coprirla, ma ai compagni (il più vicino era Zanni, dall'altro lato stava sopraggiungendo Ongaro, l'unico che si sia reso conto di quanto stava accadendo, ma ha fatto tardi) che, forse per fissare il dirimpettaio da marcare, non l'hanno avvicendato per tempo. Quando Ferris, il blindside irlandese (nemmeno uno di quelli più esperti), si è accorto della falla nel nostro assetto difensivo (eravamo alla 17ma fase, schemi saltati, poteva anche starci), si è fatto dare la palla ed è andato dritto sapendo che Griffen, 20-30kg meno pesante, poteva solo andargli alle gambe e che gli avrebbe lasciato le braccia libere per lo scarico, e così è stato. Ho reso l'idea di che cosa sia per me (e credo anche per Cariat) l'"intelligenza in campo"?
Perché ci manca, questa intelligenza? Perché alcuni dei nostri giocatori non vivono il rugby con la stessa "full immersion" degli altri. Bortolami ce l'ha, per esempio, è il suo valore aggiunto. Reato ancora no, altrimenti non scatterebbe in avanti sull'entrata di Wallace con Festuccia in ritardo (terza meta); e nemmeno Pratichetti, se va a sbattere contro l'unico compagno che aveva davanti anziché sfruttarlo come schermo.
Questo è forse colpa dello staff? O è il limite oggettivo che ancora non ci consente di competere ad armi pari? Sbagliano forse i tecnici a segnalarlo, seppure in forma talmente generica da risultare incomprensibili ai più?
Per quanto riguarda la teoria orlandiana dei 23/24 anni, hanno ragione Duccio a rimarcare il contrasto con il nostro passato ed Emy a sottolineare la differenza con gli altri Paesi, ma temo che tutti questi discorsi non siano incompatibili. Quasi tutti i nostri avanti hanno esordito da giovanissimi, ma a che prezzo? Saremmo disposti ad accettare le ripassate di qualche anno fa, quando i nostri esordivano?
E qual è il percorso formativo dei giovani rugbysti in Italia, soprattutto ma non solo di quelli pre-accademia? Quanto tempo e quante energie possono dedicare al rugby e quanto conviene che dedichino invece alla formazione? Secondo voi, Halfpenny (per dirne uno) è iscritto e frequenta l'università o un corso professionale, oppure il rugby è per lui un'attività professionale che lo impegna a tempo pieno?
Ricordo il caso di Cittadini che, pur fortissimo e promettentissimo, ha preferito giocare due anni in serie minori, con tutto ciò che questo comporta in termini di sganciamento con la realtà di vertice, pur di progredire negli studi; o quello di Mernone, che, pur essendo tra le terze linee più forti a livello giovanile, ha preferito la sicurezza di un impiego post-agonistico nelle Fiamme Oro alle lusinghe dello sport di vertice.
Senza un vero professionismo in Italia, cioè senza ingaggi e stipendi in linea con l'Europa che conta, nessun giovane con un po' di testa sceglierebbe a cuor leggero la carriera agonistica, tutti coloro che non sono certissimi del proprio talento sono costretti a cercare alternative e di conseguenza a condizionare, limitare, rallentare la propria formazione rugbystica. Il che obbliga i tecnici ad insegnare l'alto livello a chi milita "solo" nel campionato italiano. E non dovrebbero lamentarsene?