Poteva mancare il pistolotto dello Yeti, come da tradizione?
Eccovi il prodotto delle mie elucubrazioni aeree e postprandiali. Non cominciate neanche a leggerlo se non vi va.
>>C’è un sapore particolare a tornare a Bologna per la seconda volta. Diverso da quello che ho avuto nel scendere a Monza (non me ne voglia il prode Radagast). Il piacere di rivedere certe persone come Coverdale o Giancarlo01 che hanno iniziato con me questo rito (tornerò dopo sul fatto del rito); persone che non si sentono e non si vedono nel forum ma che, a differenza di altri che hanno ingolfato il forum e i vari 3d di chiacchiere e poi non si sono neanche degnati di avvertire che non venivano (p.s. le quote per i vostri appartamenti non occupati ce le abbiamo messe noi, anche quelli che si sono presi l’aereo e sono venuti dall’Inghilterra), senza dire né ai e né bai ci sono stati, anche questa volta. Bene, così adesso sappiamo chi ci tiene e chi no, su chi si può contare e su chi no, con chi possiamo impiegare quel poco tempo che la vitaccia di merda che facciamo ci lascia, e a chi invece non dedicheremo neanche due secondi bucati.
Che piacere ci può essere di così stringente e irrinunciabile a rivedere persone conosciute via cavo, riviste per la seconda o per la terza volta, non più? E soprattutto: che cosa (parlo per me) mi fa augurare di poterle rivedere, anzi, mi dà l’assoluta certezza che le rivedrò, perché comunque cercherò, nel marasma dei miei casini vari, di ritagliare lo spazio e il tempo per allungare un po’ la strada e passare da qualcuno a dirgli anche solo “ciao”?
La spiegazione (una delle possibili) la trovo combinando due parole che ho usato finora: rito e certezza. E la trovo proprio pensando ad uno “strano” fenomeno della nostra società moderna e industrializzata: il ritorno verso forme di aggregazione tradizionale, di stampo quasi contadino, marcate da tempi e spazi condivisi e ritualizzati. Siamo sottoposti allo stress di una vita moderna, spersonalizzata e spersonalizzante, in cui il senso delle cose sembra sfuggirci, dove il basamento delle certezze si sbriciola poco per volta, minacciando quell’insieme di cose su cui fondiamo la nostra identità e il nostro stare bene. In qualche modo io mi sento in “pericolo”, sento che le cose che contano sbiadiscono ogni giorno un po’ di più, che il corso delle cose mi porta via quello che vorrei trattenere e che non c'è niente da fare. Sento che potrei diventare più povero. Il ritualizzare un evento, che per me è significativo, diventa il modo per riaffermare l’importanza dei valori che lo fondano. Tra noi non possono intercorre rapporti quotidiani che rinsaldino il legame di amicizia che ci unisce in qualche modo. Abbiamo poche, pochissime occasioni all’anno. Anzi, ce ne siamo inventati una, tutta per noi. Al punto che per alcuni di noi, si va bene, ci sono anche altre occasioni, ma come Bologna…. Ciò che non è ripetizione quotidiana diventa ripetizione rituale, diventa il modo simbolico per rinsaldare i legami, riconfermarne le certezze, per colmare simbolicamente il vuoto di quotidianità che intercorre tra un incontro e quello dopo. È inutile credere il contrario: l’uomo è un animale rituale in quanto animale abitudinario. Il rito non è altro che cercare di ripetere ciò che ci è piaciuto e ci ha fatto stare bene. Si creano una mitografia di racconti condivisi e che vengono riraccontati e riportati in vita di volta in volta (il vomito di Billingham, la meta sui 22). Che senso c’è a raccontare cose che tutti sanno, se non il senso rituale? Al di là dello scherzo, chiediamoci perché a qualcuno è venuta l’idea di inventare la cerimonia (abbiamo usato questa parola: cerimonia) dell’innalzamento della bandierina sulla linea dei 22? Perché proprio una cerimonia e non qualcos’altro? E la consegna della lapide commemorativa? Perché l’idea di rifare una lapide, proprio come nelle forme della ritualità? Si crea una lista di cose da rifare di volta in volta: rotolare Cicca nel fango, per esempio. L’abitudine crea il rito, il rito crea l’abitudine. E ognuno di noi sente di stare finalmente un po’ bene, dopo tanti casini, nel piccolo corollario delle sue abitudini, di essere un pezzo individuale e unico di una pluralità che non annulla il suo essere persona: non è monologo, non sono 40 voci che cantano la stessa melodia. È la polifonia del rito come forma di incontro e aggregazione. E il rito ha bisogno di tre cose che siano sempre uguali: un certo numero di faccie sempre uguali, un luogo sempre uguale e un periodo sempre uguale. Se l’anno prossimo non ci fosse nessuno di quelli che c’erano quest’anno e l’anno scorso per me non avrebbe più senso. Ho bisogno di vedere almeno tre o quattro faccie dell’anno prima. E in fondo sentiamo tutti che è così, che un Bologna senza Radagast, McPippus, Jimmi, Titti, Billingham, Coverdale e altri che non posso citare qui (non me ne vogliano) non sarebbe la stessa cosa. E neanche se fosse a Ottobre o se fosse da un’altra parte. Bologna a fine giugno è il Natale di
www.rugby.it, il momento in cui reincontriamo certe persone e in cui vogliamo, con la nostra presenza, far capire loro l’importanza del loro essere lì con noi in quel momento. È la riconferma di un saldo principio su cui fondiamo il nostro modo di essere e di vivere. Oppure sto esagerando? Non pretendo che per tutti sia così, per me lo è. Non riesco altrimenti a farmi una ragione del fatto che vedere McPippus sia per me la cosa più ovvia ed augurabile del mondo, quando invece non può ragionvolmente esserlo (non solo per la bruttezza intrinseca di McPippus): non è possibile essere contenti di vedere una persona che hai visto solo una volta esattamente l’anno prima. La ragione non è quotidiana, trascende il quotidiano. È semplicemente rituale.
Vorrei fare un pensiero particolare a questo punto per tutte le persone che erano lì per la prima volta e la cui presenza (lo dico fuor di retorica) mi è sembrata tanto significativa quanto quella degli altri più vecchi. E a tutti quelli che avrebbero voluto esserci e ci hanno magari pensato (e gli rodeva il culo a non esserci, come a quello s*****o di Conchiglione, a cui auguro che il suo cane, questa sera quando torni a casa, gli azzanni i testicoli e ci giochi a ping-pong).
Un abbraccio particolare ai sacerdoti (McPippus e Alby) e ai sacrestani (quei due signori uno piccoletto e grigio con la barbetta, l’altro attaccato alle pentole e ai padelloni in cucina) che si sono occupati della logistica e dell’organizzazione.
Fine della predica.
E adesso preghiamo tutti insieme:
Credo in un solo Yeti, peloso onnipresente, creatore della meta sottoterra, e di tutte le chiose leggibili e illeggibili.
Credo in un solo Terrone detto Ivan, unigenito figlio di Desio, nato da Peru prima di tutti i Petoli. Desio da Desio, Muzzo da Muzzo, Peruperu da Peruperu, generato screanzato della stessa sostanza di Billy. Per mezzo di lui tutte le porte sono state spostate. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dall'aereo e per opera dello Spirito Sardo si è incastrato nel retro della macchina di Jimmi e si è fatto a uovo. Patì sotto Fiumi di Birra, morì e fu sepolto, il terzo giorno è risuscitato nonostante le fratture, è salito al cesso e siede alla destra di Cicca, e di nuovo verrà nella gloria per giudicare i litri e i vuoti, e la sua sete non avrà mai fine.
Credo nello Spirito Sardo, che è Petolo e dà il mirto, e procede da Parm e da Pinghial, e con Hank e con Pippus è odorato e maleodorato, e ha parlato per mezzo dei bicchieri.
Credo a Bologna, una, santa, catatonica e (esse)apostrofica, professo un solo sedicesimo, per il perdono di Radagast, aspetto la resurrezione dei vuoti e l'acquavite nel match che verrà.
Amen
G.